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aggiornato: 08-08-2011           wildcat.zirkular.thekla.materiali.italiano

Quando migrano le lotte:
lo sciopero nella fabbrica verde di Nardò (Lecce)

Paola Rudan, Devi Sacchetto

Sciopero ora! È la parola d’ordine che risuona da sabato nella masseria Boncuri di Nardò, a pochi chilometri da Lecce. A gridarla da un megafono sono lavoratori africani giunti da varie parti d’Italia per la raccolta. Chiusa in fretta quella delle angurie, con il 60% del raccolto lasciato a marcire nei campi – complici le importazioni a prezzi stracciati da Grecia e Turchia – i migranti si sono riversati sui pomodori. Anche per questo il salario imposto dai caporali, tutti a loro volta africani, è ancora più basso dell’anno scorso: 3,5 euro per cassone di 100 chili per i pomodori grandi, 7 euro per il ciliegino. Sabato mattina, quando a questo si è aggiunta la richiesta di selezionare il prodotto sui campi prima di infilarlo nei cassoni, è partita spontanea la protesta. Una quarantina di lavoratori si sono rifiutati di continuare il lavoro e son tornati alla masseria, dove da due anni l’associazione Finis Terrae e le Brigate di solidarietà attiva (Bsa) li sostengono per soddisfare alcuni dei bisogni quotidiani e con la campagna “Ingaggiami. Contro il lavoro nero”, iniziata nel 2010. Dopo una veloce riunione alle sei e mezza del mattino, i migranti decidono per il blocco della vicina strada statale che dura però poco a causa dell’immeditato intervento della polizia. La protesta si conclude con la convocazione di un’assemblea nella masseria per il sabato sera da parte della Flai-Cgil locale, arrivata buon’ultima a sostenere le ragioni dei migranti. Il primo a presentarsi è un caporale tunisino, per pagare la settimana di lavoro ed evidentemente per capire la situazione. Rimane poco e poi se ne va, mentre la tensione tra i circa 300-350 lavoratori presenti nella masseria si taglia a fette. Si reclamano aumenti salariali e contratti di lavoro. L’anno scorso le organizzazioni padronali avevano sottoscritto circa 170 contratti, anche sotto la spinta delle prime forme di organizzazione autonoma dei migranti per reclamare migliori condizioni di lavoro. Oggi con un solo contratto, confezionato su misura dai caporali, lavorano anche diverse persone. Ma è difficile pensare che il sistema sia retto solo da caporali stranieri.

Certo, sono loro che gestiscono il mercato del lavoro nella raccolta dei cocomeri e dei pomodori: “un tunisino è il capo dei caporali e poi ci sono sudanesi, ghanesi. Ognuno cerca di assumere i suoi connazionali”, afferma Francoise, un trentenne togolese da quattro anni in Italia. Ogni caporale straniero recluta le sue squadre di lavoro alle quattro del mattino, sulla base di una trattativa al ribasso sul salario. I lavoratori conoscono la realtà del lavoro migrante, così come sanno che ci sono “diverse categorie di migranti”, che quelli senza un permesso di soggiorno accettano, talvolta, le condizioni salariali peggiori. Sono gli effetti ordinari della Bossi-Fini, che si fanno sentire dalle fabbriche del nord alla fabbrica verde del sud d’Italia. I lavoratori reclutati sono stipati nei pulmini: “il trasporto si paga tre euro, ma poi nei campi ti fanno pagare anche il panino, l’acqua, le sigarette”, racconta Abdellah un tunisino che da settembre a giugno lavora nell’agricoltura del trapanese. E i rumors tra i migranti sono che il datore di lavoro paghi 10 euro per cassone con pomodori grandi, 15 euro per il ciliegino: 6-7 euro a cassone si dividono tra le vari intermediazioni che nessuno conosce bene. Per questo i lavoratori in sciopero pretendono di “trattare direttamente con le aziende”.

Questo sistema di mediazione – che ricalca per certi versi l’organizzazione frammentata ed esternalizzata del lavoro industriale – è la forma consolidata della produzione e dello sfruttamento nell’agricoltura, che si regge sempre più, quando non esclusivamente, sul lavoro migrante. A monte ci sono cinque, sei aziende: 600-700 ettari ciascuna destinati a cocomeri e pomodori. Esse affidano talvolta ad altre imprese il lavoro di raccolta, seguendo le regole del sub-appalto: vendere i prodotti sui campi e quindi affidare ai sub-appaltatori oneri e onori della raccolta e della commercializzazione. Una strutturazione produttiva continuamente modificata poiché essa funziona come uno spazio politico nel quale le convenienze cambiano rapidamente. Catene del sub-appalto e del caporalato si intrecciano in modo stretto.

Il caporalato trae linfa vitale dall’isolamento della manodopera: le condizioni di vita e di lavoro peggiorano, infatti, quando i lavoratori sono sistemati in luoghi lontani dai centri abitati, come l’esperienza delle campagne foggiane è lì a dimostrarci. Il costo dell’acqua, del cibo, del trasporto, delle sigarette lievita, e diventa impossibile uno scambio di esperienze e forme di organizzazione. I migranti che scendono dal settentrione ben conoscono il legame tra isolamento fisico, sociale e politico: il miracolo del nordest fatto di piccole imprese disperse in mezzo alle campagne si è retto anche su questo. Eppure, queste campagne salentine, grazie anche a Finis Terrae e alle Bsa, sembrano in grado di produrre nuove relazioni sociali aggreganti e forse anche un reciproco tendenziale riconoscimento di una comunanza di destino.

Quest’anno l’organizzazione autonoma dei lavoratori migranti sembra più articolata, forse anche perché il lavoro è scarso e il malcontento diffuso: in molti hanno lavorato non più di tre, quattro giorni nell’ultimo mese e mezzo. Dopo la disastrata raccolta dei cocomeri un cospicuo numero di tunisini se n’è andato e il campo è composto prevalentemente da migranti sub-sahariani, tutti maschi dai 25 ai 40 anni circa, sebbene qualcuno arrivi anche ai 50 anni. Tra i lavoratori africani, accanto a un cospicuo numero di richiedenti asilo, vi sono operai espulsi dalle fabbriche settentrionali alla ricerca di un ammortizzatore sociale durante i mesi estivi, oppure braccianti moderni che seguono le raccolte: Foggia, Palazzo San Gervasio, Rosarno. Solo una piccola parte è sprovvista del permesso di soggiorno, mentre più consistente è il numero di quanti possono contare su un permesso umanitario o sono in attesa dello status di rifugiato. Tra gli irregolari, molti sono usciti da poco da un centro di detenzione dopo aver attraversato il Mediterraneo in fuga dal conflitto libico. Ospitati in 28 tende messe a disposizione dalla provincia di Lecce oppure arrangiandosi con tende personali, possono usufruire dei servizi base: acqua potabile, docce calde, water chimici, corrente elettrica, presenza di un medico dell’Asl locale dalle 17 alle 22, assistenza legale. Il cibo viene preparato, per 3-4 euro a pasto, da altri migranti che si dedicano esclusivamente a questa attività in baracche collocate nell’area della masseria.

Burkinabé, ghanesi, sudanesi, tunisini sembrano decisi a resistere. Eppure le pressioni sono forti: Ivan, uno studente camerunense del Politecnico di Torino, vero leader della protesta, all’assemblea di lunedì sera al megafono di fronte alle televisioni locali spiegava con assoluta calma di aver ricevuto minacce di morte da parte dei caporali. Nessuno dubitava delle sue parole. Ma anche stamani alle tre del mattino i più combattivi tra i migranti hanno costruito sbarramenti di fortuna per impedire ai caporali di caricare qualche crumiro. Mentre i giornali locali, La Gazzetta del Mezzogiorno in prima fila, cercano di spegnere l’incendio scrivendo che la maggior parte dei migranti vuole tornare al lavoro.

La lotta di questi giorni non si è strutturata attorno a una linea comunitaria. I lavoratori migranti di Nardò non condividono lingua o nazionalità, ma un obiettivo – il miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro – e l’idea che sia lo sciopero lo strumento attraverso il quale conseguirlo. Uno sciopero praticato nonostante la precarietà radicale delle condizioni di vita e di lavoro, uno sciopero fatto anche per quanti più ricattabili dalla clandestinità che la Bossi-Fini sistematicamente produce. “Salento: sole, mare e sfruttamento”, recitava una scritta di qualche anno fa’ su un muro di un paesino poco lontano da Nardò: i coraggiosi lavoratori africani sembrano in grado di far cambiare il vento.

Nardò, lo sciopero dei braccianti continua

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto

"Siamo arrivati a sette giorni di sciopero, ma possiamo continuare”, afferma orgoglioso Kwere, un trentenne ghanese. La lotta d’altri tempi dei braccianti africani di Nardò, cominciata al mattino di sabato 30 luglio con il blocco della strada antistante il campo allestito dall’associazione Finis Terrae e dalle Brigate di solidarietà attiva presso la Masseria Boncuri, continua. Ieri mattina in un centinaio erano di fronte alla Prefettura di Lecce per un sit-in convocato dalla Flai-Cgil. Un tavolo tecnico è stato convocato dalla Prefettura per lunedì, sembra un passo decisivo. Ma, come i lavoratori africani hanno imparato, è solo nei campi che i rapporti di lavoro si modificano, con o senza caporali: nell’assemblea di ieri sera alla Masseria hanno deciso di continuare lo sciopero.

In questi giorni sono arrivate televisioni, giornalisti e anche sindacalisti e qualcuno è stanco di tutta questa pubblicità: “siamo venuti qui per lavorare e guadagnare qualcosa”, dice Tarek, un tunisino di 45 anni, “ma vogliamo lavorare a un salario giusto”. Mercoledì notte, quando i lavoratori in sciopero hanno provato a bloccare i furgoni dei caporali, qualcosa di nuovo era successo: le forze dell’ordine hanno fermato un pulmino con qualche crumiro e un caporale a bordo che è riuscito a fuggire. Molti caporali adesso non si fanno vedere, ma qualcuno che cerca di portare i lavoratori a raccogliere i pomodori rimane. Contro questi si scaglia Ivan, lo studente universitario camerunense leader dei braccianti: “Non è possibile, ancora questi che raccolgono i lavoratori. Sono andati alle dieci stamani a lavorare e sono tornati alle cinque”. La fabbrica verde è permeabile e qualche lavoratore si trova sempre. D’altra parte gli scioperanti hanno scelto un profilo assolutamente moderato contro i crumiri, quanto radicale nella loro lotta.

Forzare il blocco dello sciopero è un tentativo continuo da parte dei caporali appoggiati dai proprietari agricoli che stanno nell’ombra, ma che devono raccogliere in fretta i pomodori. La lotta ha ottenuto una certa attenzione mediatica e la voce corre di bocca in bocca. I molti braccianti stranieri che già stanno affollando i “ghetti” più o meno nascosti nelle campagne foggiane e lucane, da Rignano Garganico a Stornarella a Boreano, guardano a Nardò per capire se qualcosa potrà cambiare nelle prossime raccolte. È già iniziata quella del pomodoro a Foggia, una delle piazze più difficili per i lavoratori. Qui si rischia la vita perché il caporalato mostra anche la sua faccia violenta. Chiedere ai polacchi per credere. Poi sarà la volta di Palazzo San Gervasio (dove la Regione Basilicata ha qualche giorno fa tardivamente stanziato ben 70.000 euro per alleviare la drammatica situazione dei braccianti che stanno popolando i casolari abbandonati nelle campagne), quindi, da novembre, Rosarno per le arance. Ma i percorsi dei lavoratori africani che oggi sono a Nardò passano anche per altre regioni: Abderraouf, un tunisino di 33 anni, tornerà a Ragusa dove solitamente lavora da settembre a giugno nelle serre per 32 euro al giorno. Molti sono i tunisini che lavorano in Sicilia per otto-nove mesi all’anno e poi vengono a Nardò per la raccolta dei cocomeri; una coltura che permette maggiori margini di guadagno anche per i lavoratori, 60-70 euro al giorno. Ma quest’anno le angurie sono maturate con un po’ di ritardo a causa del freddo e quindi la loro immissione nel mercato si è accavallata con quella dei produttori di altre aree, come ad esempio quelli della provincia di Latina; le angurie greche e turche a basso prezzo hanno fatto il resto.

Ibrahim, un giovane sudanese di 26 anni, era venuto invece a Nardò solo per la raccolta dei pomodori e fra poche settimane sarà a Palazzo San Gervasio per la stessa coltura e per lo stesso salario: 3,5 euro per cassone di 100 chili di pomodoro. Gira un po’ il sud, al massimo è arrivato a Roma. Ha lavorato in Salento anche nella sistemazione dei pannelli fotovoltaici per Tecnova, un business che è sfociato in una lotta sostenuta dalla Ugl pugliese. Kireme, un giovane ghanese che negli ultimi sette-otto mesi ha battuto le stesse campagne di Ibrahim non sembra prestare attenzione alla differenza delle sigle sindacali: “Sì, siamo stati sostenuti dalla Ugl, abbiamo fatto una manifestazione; adesso qui c’è la Cgil, oggi siamo stati a Lecce (davanti alla Prefettura)”. Con Tecnova lavorava 12-13 ore al giorno, con un riposo settimanale e un salario in nero di 900-1.000 euro mensili. Qui in nove giorni di lavoro ha guadagnato 400 euro, lavorando 11-12 ore, “ma un giorno abbiamo lavorato 15 ore”. ”È tutto lavoro in nero, questo è il problema” dice Abdel, un tunisino di 42 anni che per dieci anni ha vissuto a Belluno: “Ho lavorato in una fabbrica che produceva galleggianti e poi mi hanno licenziato. Adesso qui ho lavorato tre giorni nei pomodori, ma non si guadagna niente. Dieci cassoni [1000 chili] per 40 euro, togli il trasporto e da mangiare e bere, ti restano 32-33 euro. Ho un debito qui con quelli che cucinano di 150 euro”.

L’ispettorato del lavoro, con organico perennemente sottodimensionato, non sembra in grado di svolgere controlli adeguati e così i falsi contratti proliferano. Anche Said ha un contratto falso con una ditta di Porto Cesareo, poco lontano da Nardò. Mentre qualcuno cerca di alzare un polverone sulle condizioni igienico-sanitarie del campo, i lavoratori africani chiedono condizioni di lavoro migliori. Certo, nel campo vi sono condizioni precarie, con tende da sette posti e igloo personali, oltre a qualche decina di persone che dormono sostanzialmente all’aria aperta: “sempre meglio qui insieme che nei casolari abbandonati e isolati di Foggia” dice Salim, che ha già girato tutte le campagne meridionali. La coabitazione nel campo, fonte talvolta di tensioni, quest’anno ha invece messo i braccianti in una condizione di aggregazione e di forza: “ci troviamo, ci parliamo. È molto più facile”, racconta Ivan. Forse per questo molti sono preoccupati e vorrebbero chiudere questa esperienza perché, ironia della sorte, manca l’acqua calda. Per chi, a pochi chilometri da qui, si riposa nelle spiagge pugliesi, avendo lasciato il proprio cane in qualche canile a 15 euro al giorno, magari la questione igienico-sanitaria è decisiva, ma per i lavoratori africani un salario più elevato sembra una prospettiva incomparabilmente più importante.

Le richieste dei braccianti in sciopero non sono certo rivoluzionarie: contratti regolari, intermediazione del Centro per l’impiego locale invece che dei caporali, poter tenere con sé i documenti d’identità, più controlli nei campi da parte delle istituzioni, condizioni abitative migliori. Inoltre, essi chiedono che un cassone di pomodori venga retribuito 6 euro invece che 3,5. La loro protesta non mette in discussione il cottimo, apparentemente più conveniente. Grazie alla loro forza fisica – la maggior parte dei braccianti ha tra i 20 e i 40 anni – essi sperano di ottenere una paga giornaliera superiore ai circa 40 euro per 6 ore e mezza di lavoro garantiti dal contratto provinciale. In realtà, il cottimo conviene al datore di lavoro, che ha la certezza del costo del lavoro per la raccolta, mentre per il lavoratore significa soprattutto un aumento dei ritmi di lavoro e spesso una dilatazione della giornata lavorativa, ma certo non un aumento del salario complessivo. Tuttavia, la richiesta dell’aumento del cottimo, per quanto in contraddizione con quella di ottenere “contratti regolari”, è tale da mettere in crisi i precari equilibri dell’agricoltura salentina e in generale dell’Italia meridionale.

Intanto arrivano anche le prime concrete forme di solidarietà. Martedì sera le Bsa hanno distribuito un piccolo sacchetto di cibo, rimarcando che si trattava della solidarietà a lavoratori in lotta, non certo mera elemosina. Nonostante le difficoltà tutti i lavoratori africani sono consci della posta in palio, non solo qui ora a Nardò.

5 agosto 2011

Criticità: lo sciopero di Nardò a una svolta?

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto

“Le cose vanno crescendo, anche se non nel modo in cui ci aspettavamo, ma vanno crescendo”, cosi Yvan, camerunense, uno dei portavoce della protesta di Nardò. Ieri mattina quasi 150 lavoratori sono tornati nelle campagne a raccogliere i pomodori, mentre quasi altrettanti hanno deciso di continuare l’astensione dal lavoro. Gli scioperanti hanno deciso di non effettuare più i blocchi “dissuasori” intorno alle strade della masseria Boncuri alle tre del mattino, che hanno caratterizzato l’ultima settimana.

In compenso però i caporali hanno iniziato a regolarizzare la posizione contrattuale dei lavoratori e alzato il prezzo del cassone fino a 6 euro, entrambe richieste della prima ora degli scioperanti. Nei fatti è uno scardinamento della compattezza fin qui dimostrata, sebbene le discussioni anche con questi immigrati ritornati al lavoro siano continue da parte degli scioperanti. Quanti lavorano godono così dei primi effetti dello sciopero e soprattutto dello sforzo di continuarlo da parte di molti migranti. I pomodori sui campi stanno marcendo e non è sempre possibile attingere a fondi statali o europei per ripianare le perdite. “Vogliamo cambiare qualcosa nel sistema di lavoro e di questo siamo orgogliosi” afferma Gharib, uno dei tunisini che più si sono esposti in questa vicenda. La regolarizzazione contrattuale penalizza le poche decine di persone senza documenti, alcune delle quali lavorano però sotto falso nome. La combinazione tra la normativa Bossi-Fini e le sue appendici successive e la legislazione sul mercato del lavoro hanno un effetto devastante sui migranti.

Ma aziende e caporali hanno capito che qualcosa è cambiato e che, almeno per quest’anno, occorre arrangiarsi. I caporali al momento mantengono un ferreo controllo sull’organizzazione del lavoro, sebbene abbiano dovuto accettare momentaneamente una situazione per loro incontrollabile. Yvan chiarisce: “i caporali nei giorni scorsi si nascondevano, adesso si sono messi in regola e vengono qui alla mattina senza paura perché sanno che incorrono in una semplice sanzione amministrativa; all’inizio pensavano che questa campagna li avrebbe fermati, mentre adesso le multe che ricevono sono di 40, 50 euro e per loro che guadagnano 20, 25, 30 mila euro in una stagione, non gliene frega niente. Vengono qui in tutta libertà e si vantano anche dicendo che: ‘lo sciopero non serve a niente, vedete che le forze dell’ordine non riescono a fermarci, venite a lavorare’”.

Eppure le minacce, dirette e indirette, da parte dei caporali continuano nei confronti di Yvan come degli altri protagonisti di questo sciopero estivo, che disturba poiché pur privo della violenza facilmente mediatizzabile, è assolutamente determinato nei suoi obiettivi. Nella riunione con il Prefetto di lunedì prossimo, ottenuta dopo la manifestazione di giovedì mattina alla prefettura di Lecce, i punti da discutere sono già chiari: contratti di lavoro “reali”; l’affidamento al Centro per l’impiego dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro; mezzi di trasporto gratuiti e adeguati per andare al lavoro; aumenti salariali; un medico e un infermiere a disposizione dopo il lavoro. Sono richieste apparentemente moderate, ma che nell’agricoltura meridionale sembrano incompatibili per le aziende che devono cercare di “rimanere nel mercato”. Resta da capire quali sono le aziende su cui puntare per provare a siglare degli accordi, perché le tre, quattro associazioni di categoria locali non sempre sono rappresentative.

Qualche tensione tra braccianti di diverse nazionalità è ripresa dopo sette giorni di sciopero: sudanesi e tunisini, che possono contare su caporali che controllano di fatto il mercato del lavoro, si sentono più penalizzati di altri. Senza dubbio gli “spassionati suggerimenti” dei caporali incidono tra chi sperava in qualche giorno di salario. Gli organizzatori dello sciopero sono consapevoli di queste divisioni e di questi risentimenti. Anche ieri sera si sono svolte lunghe discussioni tra i lavoratori, con qualche momento di tensione. Ma uno dei risultati più importanti della mobilitazione è proprio il fatto che nel campo si sia rotto l’isolamento tra i braccianti: “Prima ognuno andava a lavorare e poi tornava a dormire e non sapeva nemmeno quello che succedeva nel campo. Da quando è iniziato lo sciopero c’è più comunicazione e discussione”, afferma contento Mohammed, sudanese.

In effetti le discussioni sono continue sia sullo sciopero e le richieste da portare avanti, sia sull’attenzione mediatica, sia soprattutto sulle prossime campagne di raccolta che aspettano questi lavoratori: “A Foggia hanno gli stessi problemi che abbiamo noi e che ci sono in tutto il sud Italia”, ricorda Tarek. E James, un ghanese che già era passato di qui l’anno scorso, afferma: “vogliamo estendere la nostra lotta a tutta la Puglia e, se possibile, al sud Italia perché finisca questo fenomeno di sfruttamento soprattutto dei migranti”. Anche la Flai-Cgil regionale sembra intenzionata a mobilitarsi per le prossime raccolte, ma occorrerà poi misurare sul campo i margini di manovra.

Intanto prosegue silenziosa la solidarietà. Anche ieri sono arrivate due signore di Galatina, un paese a 15 chilometri da Nardò, che in uno splendido anonimato portano una decina di sacchetti della spesa. “Una solidarietà per la lotta, non carità”, tengono a sottolineare.

Stamani alcuni lavoratori della Fiom-Cgil sono venuti a discutere con i lavoratori in sciopero, mentre le riunioni auto-gestite dai migranti sono continue. Oggi, sabato, alle 16.30 è prevista un’assemblea di realtà antirazziste pugliesi, lucane e calabresi per discutere anche delle prossime raccolte.

Ricordati di come si fa uno sciopero

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto

“Ci avete ricordato come si fa uno sciopero”, dice Nicola, un militante della Rete antirazzista di Bari, durante l’assemblea tenuta ieri alla Masseria Boncuri di Nardò dalle Reti antirazziste e delle associazioni pugliesi. Un’assemblea affollata, almeno cinquanta persone – cariche anche di cibo e sostegno concreto agli scioperanti – venute da tutta la Puglia, ma anche dalla Basilicata, dalla Calabria, da Bologna e altre città del Nord, e che ha mostrato quanto il Campo di Nardò, dove i braccianti africani sono in sciopero da più di una settimana, sia diventato un punto di riferimento per le lotte dei migranti. Arturo, dell’Associazione Equosud, arrivato dalla Piana di Gioia Tauro, ha ricordato con forza ai lavoratori di Nardò che questo è un evento storico: è la prima volta che braccianti stranieri impegnati in agricoltura decidono di scioperare per rivendicare diritti legati al lavoro e per spezzare il sistema del caporalato. E lo fanno in modo auto-organizzato.

Yvan, uno dei leader della mobilitazione, ha raccontato le varie fasi dello sciopero, senza tacere le difficoltà: “alcuni di noi sono tornati al lavoro perché non capiscono, altri perché sono minacciati dai caporali”. È orgoglioso Yvan, e con lui gli altri protagonisti di questo sciopero, di quanto ottenuto finora, e consapevole dei passi da fare nei prossimi giorni, a cominciare dall’incontro in Prefettura a Lecce lunedì mattina. L’assemblea mette in luce diverse sensibilità: le Reti antirazziste pugliesi sostengono la necessità di organizzare nelle prossime settimane a Bari una manifestazione regionale, allargata ad altre realtà del Sud Italia, che parli non solo dello sciopero di Nardò, ma anche di quanto sta avvenendo al Cara di Bari e ai migranti “ospitati” a Manduria; altri discutono invece di come aiutare i migranti a dare seguito allo sciopero o ad altri tipi di mobilitazione nei territori delle prossime raccolte, a Foggia, a Palazzo San Gervasio, a Rosarno.

Qui pesa soprattutto l’assenza di realtà provenienti dalla Capitanata: la raccolta del pomodoro è già iniziata e i vari “ghetti”, sparsi su un territorio vastissimo, sono pieni. La dispersione territoriale della raccolta nel foggiano rende complicato uno sciopero; a questo si aggiunge la presenza massiccia di lavoratori est-europei. Ma gli scioperanti di Nardò guardano lontano: prendono contatti diretti con le realtà che lavorano in altri territori, progettano assemblee e momenti di incontro. Ai margini dell’assemblea, italiani e africani discutono, scambiano idee, raccontano, chiedono spiegazioni. Moussa, un burkinabé appena tornato dal lavoro, ci racconta che la sua squadra, di una ventina persone, oggi ha riempito un camion di pomodorini; ciascun operaio ha fatto dai 3 ai 6 cassoni, pagati 6 euro l’uno. E il caporale? “Non lo so. Se io ho preso 6 euro a cassone, lui ne avrà presi 8. E in più gli ho dato 5 euro per il trasporto”. Moussa è scettico sullo sciopero: “è tutto uguale a prima. Anche prima ci pagavano 6 euro per i pomodorini. E il potere dei caporali è intatto”. E i blocchi stradali contro i furgoni dei caporali? “Sì, ci sono, ma molti sono andati a dormire nelle campagne pur di andare a lavorare. Soprattutto gli irregolari, perché loro un contratto non ce l’avranno mai”. È chiaro il peso della Bossi-Fini e della gerarchia tra gli status giuridici che questa produce, e dunque delle divisioni che determina anche tra i lavoratori migranti.

Pur con qualche eccezione, il cottimo è tuttavia aumentato e quanti lavorano sono ingaggiati con contratti “veri”. D’altra parte, come racconta Omar, un nigerino che conosce bene l’Italia meridionale, alcuni caporali per rompere il fronte degli scioperanti “sono andati a prendere persone a Foggia per farle lavorare qui. Questa lotta è difficile”. Omar, che nel frattempo ha trovato un impiego in un negozio di Nardò, concorda con quanto ha appena espresso Yvan in assemblea: “è necessaria una legge nazionale contro il caporalato. Se fare il caporale fosse un reato penale, loro avrebbero molto meno potere”. C’è, forse, in questo, un certo ottimismo, soprattutto perché, come dimostrano le leggi sul’immigrazione e sulla precarietà lo sfruttamento avviene continuamente con il sigillo della legalità, dentro la quale si esprimono niente più che rapporti di potere. Ma questo è chiaro per i braccianti di Nardò, che con lo sciopero vogliono affermare proprio una posizione di forza.

John, bracciante ghanese, si informa dai lucani sulla situazione di Palazzo San Gervasio, dove tra qualche settimana inizierà la raccolta del pomodoro. A Palazzo anche quest’anno non sarà allestito alcun campo di accoglienza, mentre alcuni casali sono stati abbattuti dai proprietari, sicché quanti vorranno lavorare dovranno insediarsi nei casolari abbandonati nelle campagne. L’unica “accoglienza”, a Palazzo San Gervasio, è quella che passa dal centro di detenzione appena costruito. A dimostrazione del fatto che i CIE continuano a essere strutture portanti del mercato del lavoro. E non stupisce allora che John disegni una croce con le mani e dica convinto: “no, quest’anno a Palazzo non ci vengo”.

Una delle proposte dell’assemblea è quella di costruire una rete dei lavoratori africani del Mezzogiorno d’Italia che si appoggi alle realtà associative che operano nei vari territori, per offrire servizi coordinati e sostenere le rivendicazioni dei braccianti. Questo sciopero mette ancora una volta in luce in realtà una questione strutturale dell’agricoltura meridionale, che da vent’anni scarica le proprie contraddizioni e le proprie crisi sui lavoratori migranti. La Masseria Boncuri costituisce un laboratorio politico, e il nucleo duro degli scioperanti ne sembra consapevole. Se n’è accorto persino il procuratore Cataldo Motta, capo della Dda di Lecce, che in un’intervista pubblicata nelle pagine regionali di Repubblica, ha affermato: “Gli immigrati negli ultimi mesi ci hanno dato una grande lezione di civiltà… Dovremmo imparare ad avere coraggio, prendendo esempio da chi lo ha avuto pur essendo in una condizione di grande debolezza”.

I migranti sono però stretti dalla necessità di conseguire un salario in fretta, sia per le necessità immediate sia perché altrove la crisi economica internazionale è ben peggiore di quanto si viva in Italia: “Abbiamo tutti le nostre famiglie, qui o in Africa, a cui mandare del denaro”, afferma Omar. Sebbene più della metà dei migranti sia ritornata nei campi, chi resiste spera di ottenere un miglioramento nelle condizioni di lavoro qui a Nardò, per essere poi più forti altrove nei prossimi mesi. Come spesso accade sono i migranti a segnalare le nuove frontiere della precarizzazione del lavoro, e questa volta anche a indicare la possibilità e i modi di lottare contro di essa. Vista la violenza con cui in questi ultimi mesi il capitalismo internazionale sembra esprimersi, c’è da augurarsi che la lotta della Masseria Boncuri possa effettivamente costituire una possibile risposta.

7 agosto 2011

Lo sciopero a Nardò (Lecce) è finito

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto

Dopo 13 giorni difficilissimi lo sciopero è sostanzialmente finito alla Masseria Boncuri di Nardò (Lecce). Yvan, il leader camerunense della protesta, se ne è andato dopo una notte, quella di giovedì 12 agosto, ad alta tensione tra gli stessi scioperanti. Il gruppo di migranti che, pur politicamente inesperto, aveva imposto una lotta coraggiosa si è fatto così consumare dal logorio continuo delle pressioni padronali e istituzionali, di attenzioni sindacali e massmediatiche (sono passati in questi giorni anche Linea diretta e Report), nonché di dicerie dispensate ad arte da altri migranti e dai caporali sui privilegi, in realtà inesistenti, di alcuni protagonisti. Certo, il decreto d’urgenza emanato ieri dal governo, peraltro una vera manovra di classe, introduce all’articolo 12 il reato di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro«: si tratta di un riconoscimento importante della lotta sostenuta dai lavoratori africani qui a Nardò. Per il momento, però, i caporali continuano indisturbati a muoversi dentro e fuori il campo, nonostante la decina di denunce che gli stessi migranti hanno risolutamente presentato in questi giorni alle forze dell’ordine.

Le prime falle tra gli scioperanti si erano create venerdì mattina 5 agosto, dopo che per sei giorni il blocco era stato pressoché totale. Da un lato si registravano i primi risultati concreti: aumento del cottimo e alcuni contratti regolari. Dall’altro era iniziata su più fronti l’azione di padroni e caporali: ingaggio di crumiri provenienti anche dalla provincia di Foggia; suggerimenti da parte dei caporali per alimentare conflitti tra scioperanti di diverse nazionalità; minacce dirette e indirette ai protagonisti più in vista. A questo nel corso dell’ultima settimana si sono aggiunti i tavoli concertativi in Prefettura a Lecce e in Regione a Bari, che hanno spossato lo slancio generoso dei migranti in una lotta nella quale si sono infilati progressivamente molti soggetti. Le pratiche istituzionali come strumento per stanare le aziende non stanno dando i risultati agognati. Addirittura, la Cia Puglia, una delle organizzazioni padronali del settore, con un comunicato stampa ha rivendicato la propria assenza al tavolo regionale poiché essa «non rappresenta e né intende rappresentare presunti agricoltori, per lo più mediatori e commercianti che utilizzano in modo selvaggio i caporali e praticano lo schiavismo«.

Gli accordi sottoscritti in Regione riguardano l’istituzione di liste di prenotazione per i lavoratori immigrati stagionali a livello sperimentale presso il Centro per l’impiego di Nardò, dalle quali il padronato dovrebbe scegliere la sua forza lavoro. Il trasporto dalla masseria fino ai campi, garantito gratuitamente dal Comune di Nardò, avverrà solo per quanti saranno scelti dalle aziende dalle liste di prenotazione. Nel frattempo la Regione sta cercando di individuare le imprese produttrici di pomodori attraverso l’Agea, l’ente che gestisce i contributi europei: Regione e sindacato sperano di coinvolgere almeno tre o quattro aziende «virtuose«, per poi provare a riproporre questo «schema« in altri contesti, primo tra tutti la Capitanata. Molti immigrati, anche tra quanti già lavorano, si sono iscritti alle liste, ma le aziende non sono obbligate ad assumere attraverso il Centro per l’impiego, sicché poco è cambiato, e siamo ormai agli sgoccioli della raccolta. Vero è che una decina di migranti sono stati regolarmente e direttamente assunti da un’azienda nei giorni scorsi, pagati con salario orario e ospitati in locali di proprietà della stessa.

Sul fronte sindacale, la Flai-Cgil è stata l’unico sindacato che ha sostenuto la protesta; essa da un lato ha puntato sui tavoli istituzionali, dall’altro ha evitato la contrattazione collettiva diretta e fornito scarso sostegno pratico agli scioperanti nei campi e nei blocchi stradali contro, nonostante che in provincia di Lecce sia forte di oltre 5.000 iscritti,. L’offerta vera o presunta dell’assunzione di uno dei protagonisti più in vista degli scioperanti presso la Cgil di Lecce come «referente per gli immigrati« non ha giocato certo a favore della compattezza degli scioperanti.

Nella Masseria già nel pomeriggio di giovedì si respirava un’aria di delusione. Lo stesso Yvan affermava: «C’è un sentimento di amarezza perché avevamo dato tutto in questa battaglia per avere dei risultati subito, ma non è successo nulla. Però sappiamo che le vittorie sono difficili da ottenere e che occorre sempre continuare a lottare perché se non si lotta non si ottiene niente. D’altra parte c’è un sentimento di vittoria perché qualcosa si è mosso sul piano politico, istituzionale, poi la stampa ne ha parlato«. Lo sciopero ha comunque permesso a molti immigrati di sentirsi meno soli e di intraprendere anche percorsi di presa di parola diretta: «ho denunciato il mio padrone perché mi aveva assunto regolarmente, ma mi continuava a pagare a cassone e non a ore, come dovrebbe«, afferma Karim, giovane tunisino.

Nonostante molti migranti siano stati costretti da necessità impellenti a ritornare al lavoro, la lotta sembra averli resi maggiormente consapevoli della loro forza. Molti di loro non avevano mai scioperato prima: «è una classe di lavoratori che pensa subito al presente, a quello che guadagna alla giornata«, sosteneva Yvan. Migranti abituati alla fatica e allo scarso guadagno, a sistemazioni disagiate, ma evidentemente in difficoltà nella gestione politica di uno sciopero così prolungato. E i volontari dell’Associazione Finis Terrae e delle Brigate di solidarietà attiva hanno potuto fare ben poco per arginare le molte pressioni subite dai braccianti.

La situazione al campo rimane tesa e la chiusura è stata anticipata di una decina di giorni. Il sindaco di Nardò in visita sabato 13 agosto ha promesso una certa attenzione ai bisogni dei migranti, in particolare a quanti necessitano di andarsene e sono senza un soldo. Come talvolta accade quando gli scioperi si concludono, salgono alla ribalta di nuovo gli individualismi e i piccoli egoismi personali, che si erano sopiti nella lotta. Pur con i suoi limiti, lo sciopero dei lavoratori africani di Nardò ci ha mostrato che è possibile e necessario, anche nelle condizioni più complicate, auto-organizzarsi e rivendicare migliori condizioni di lavoro e di vita. Di questo si dovrà tenere conto nei prossimi difficili mesi, non solo tra i migranti.

Settembre 2011

 
 
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