wildcat-zirkular 65 / febbraio 2003
versione tedesca
di Maria Turchetto
da www.intermarx.com
La quarta di copertina dell'edizione francese di Empire recita: "un
tentativo di scrivere un nuovo 'Manifesto comunista' per il nostro tempo".
L'aspirazione è ribadita nell'elzeviro (chiamo "elzeviri"
i capitoletti in carattere corsivo disseminati nel testo) dedicato al tema
MANIFESTO POLITICO (pp. 73-76 nell'edizione italiana). Francamente, non
mi è del tutto chiaro perché Empire voglia appartenere
al genere "manifesto": di fatto, configura un nuovo genere, assai
più consono al nostro tempo. I "manifesti" - politici,
artistici, filosofici che siano - sono eminentemente sintetici, originali,
radicali. Empire è tutt'altro, anzi proprio l'opposto.
Non è sintetico: è un "malloppo" di oltre 400 pagine
(oltre 500 nella più leggibile - per una presbite come me - edizione
francese). Absit iniuria verbis: anche Il Capitale di Marx
è un "malloppo", e ben più consistente, ed ha segnato
la storia (non solo la storia del pensiero) forse più dello stesso
Manifesto comunista. Ma Il Capitale è un'opera densa
e sistematica, e in quanto tale va letto dall'inizio alla fine, e rispettando
quest'ordine, per poterne cogliere correttamente la struttura argomentativa
(non a caso Marx si è lungamente interrogato sul problema dell'esposizione,
cioè sulla difficoltà di tradurre in discorsività sequenziale
una costruzione concettuale complessamente articolata). Empire non
gli somiglia: al di là della mole, è un prodotto culturale
leggero, all'interno del quale è possibile "navigare" con
una certa libertà.
Empire somiglia piuttosto ad altri e più recenti "malloppi",
di prevalente produzione statunitense: penso a testi come La fine del
lavoro di Jeremy Rifkin o La fine della storia e l'ultimo uomo
di Francis Fukuyama. Con questi testi Empire ha in comune la tesi
forte (anzi, decisamente esagerata), l'argomentazione vasta ma leggera,
il tono divulgativo, i riferimenti abbondanti ma raramente approfonditi,
soprattutto il fatto di essere fruibile quasi come un ipertesto.
La tesi forte viene infatti ritmicamente ribadita, per funzionare come slogan
facilmente riconoscibile (e facilmente spendibile) e al tempo stesso come
link che permette di accedere a diverse costellazioni argomentative,
relativamente autonome. L'insieme si presta ad essere letto a pezzi e in
ordine sparso[1], senza che il senso fondamentale
ne soffra, con un indubbio vantaggio in termini di fruibilità. Il
pensiero degli autori può infatti essere assimilato in vari modi
e a vari livelli.
1. Per slogan: vale a dire apprendendo solo i link, le parole chiave la cui padronanza è comunque sufficiente a denotare l'appartenenza a un certo "movimento" (non voglio usare il termine "ideologia", troppo carico di significati negativi). Parole chiave come alterità, autonomia, biopotere, comunicazione, comunità, comunismo, corpi, corruzione, desiderio, deterritorializzazione, disciplina, diserzione, esodo, ibridazione, immanenza, impero, moltitudine, ecc. L'elenco è ovviamente parziale e la sua compilazione - con tanto di ordine alfabetico - non è merito mio: l'indice dei nomi di cui l'edizione francese è corredata include infatti, con una scelta tutt'altro che tradizionale, nomi propri e parole chiave, fornendo un ulteriore strumento per la consultazione ipertestuale (un vero peccato che l'editore italiano non abbia seguito questa scelta).
2. Per argomentazioni parziali: cioè scegliendo la costellazione argomentativa più congeniale ai propri gusti, competenze o formazione. Ad esempio, il giovane radical americano preferirà l'argomentazione contenuta nella parte II, "Trasferimenti di sovranità": si tratta di un agile sunto (un vero Bignami) del pensiero politico occidentale da Duns Scoto a Malcolm X, completo di tutti i nomi che contano (vedere l'indice dei nomi per credere), sostanzialmente apologetico della Costituzione degli Stati Uniti. Ciò gli permetterà di spendere un'ideologia rivoluzionaria senza lacerazioni troppo violente rispetto alla formazione scolastica ricevuta, gli consentirà in altre parole di mantenere Jefferson, Lincoln e Wilson nella galleria degli eroi accanto a Marx e Che Guevara. Viceversa il giovane contestatore europeo, culturalmente più legato alla tradizione marxista, troverà nella parte III, "Trasferimenti di produzione", una tranquillizzante storia dello sviluppo del capitalismo retta dalla consueta dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione (naturalmente nella originale - ma ormai classica - versione operaista secondo cui sono le lotte del proletariato a spingere l'evoluzione del capitale), un agile sunto delle teorie dell'imperialismo in cui le posizioni di Marx, Rosa Luxemburg, Lenin coesistono senza contraddizioni e in fondo nemmeno Kautsky aveva poi tutti i torti (ma state tranquilli: Stalin resta comunque un carognone), per poi proseguire senza traumi attraverso Gramsci, Scuola di Francoforte, Scuola della Regolazione fino all'agognato postfordismo postmoderno e al non-luogo decisamente trendy dell'informatico mondo immateriale dei flussi della comunicazione. Infine, chi a queste ministorie del mondo - invero un po' troppo didascaliche - preferisce spunti un po' più colti o fascinazioni letterarie ha a sua disposizione la costellazione degli elzeviri - disseminati ma ben riconoscibili per il diverso carattere di stampa - per poter citare Céline, Conrad, Melville; oppure filosofi che non si trovano ancora nei manuali scolastici come Foucault, Althusser, Deleuze, Guattari; o ancora brani della Bibbia, padri della Chiesa e classici latini e greci.
3. Per lettura sistematica: cioè dall'inizio alla fine, tutto e in quest'ordine. E' l'approccio che ho adottato io (a causa della mia formazione decisamente vetero), ma francamente lo sconsiglio: emergono contraddizioni disturbanti. Col senno del poi mi rendo conto che il genere postmoderno del "malloppo all'americana" non va letto così: non è giusto cercare a tutti i costi la congruenza in un'opera aperta allo zapping, né applicare troppo rigidamente i principi di identità, non contraddizione e terzo escluso in un testo in cui di logico ci sono giusto gli operatori booleani necessari ai motori di ricerca. Ma visto che ormai ho commesso questo errore, passerò brevemente in rassegna alcune delle contraddizioni che ho rilevato.
Una storia moderna (anzi due o tre)
Una prima contraddizione, a dire il vero abbastanza stridente, è
quella tra lo stile, per quanto detto decisamente postmoderno,
e la concezione della storia, decisamente moderna, che Empire
sottende. Una storia teleologica, con una direzione ben identificabile (al
punto da consentire le profezie) e un movimento dialettico nel senso più
hegeliano del termine: una storia che marcia attraverso le sue brave Tesi,
Antitesi e Sintesi verso il suo (lieto) Fine. Una storia che lavora per
i buoni (cioè per la liberazione della "moltitudine"),
in cui alla fine gli ultimi saranno i primi e i "poveri"[2] erediteranno la terra. Una storia che "la
storia siamo noi", come canta De Gregori, "prodotta dall'azione
umana" (p. 225), spinta da una Soggettività potente e cosciente[3]. Un teatrino del Soggetto, dell'Origine
e del Fine, direbbe Althusser. Una "grande narrazione", direbbe
Lyotard, di fatto una religione secolarizzata (nemmeno tanto[4]).
In una parola: tutto ciò che il pensiero postmoderno ha criticato,
negato, vietato.
Va detto che Hardt e Negri si sentono, più che abitatori della postmodernità,
ormai proiettati ben oltre e al di là di questa, post-postmoderni.
E infatti trovano la "critiche postmoderne alla modernità"
(tra cui annoverano le teorie postmoderne propriamente dette, da Lyotard
a Harvey; le teorie postcolonialiste alla Bhaba; i fondamentalismi religiosi
e l'ideologia neoliberista del mercato mondiale, cfr. cap. 4 della parte
II, "Sintomi di passaggio", p. 136 e ss.) insufficienti e sostanzialmente
inutili, poiché "si ritrovano a sfondare una porta aperta"
(p. 137) criticando una logica di potere già tramontata. Del resto,
mentre i più audaci autori contemporanei si interrogano su un possibile
declino dello Stato-nazione, Hardt e Negri parlano già del declino
e della caduta di quell'Impero (cfr. parte IV, "Il declino e la caduta
dell'impero", p. 329 e ss.) che - secondo la loro analisi - dello Stato-nazione
sta prendendo il posto (o l'ha già preso? difficile mantenere l'orientamento
in queste veloci scorrerie nel futuro). Insomma, la dialettica non sarà
postmoderna, ma per quanto ne sappiamo potrebbe essere post-postmoderna.
Sta di fatto che i Nostri ne impiegano dosi massicce.
All'insegna di una dialettica di stampo hegeliano è la storia del
potere occidentale tracciata nella parte II: quasi una Filosofia dello
Spirito ad uso dei nordamericani, poiché il percorso dello Spirito
culmina qui, anziché nello Stato prussiano, nella Costituzione degli
Stati Uniti. Seguimi, lettore, che te la racconto.
Tesi: Umanesimo e Rinascimento. Una "rivoluzione" che si
verifica "in Europa, tra il XIII e il XVII secolo[...] attraverso distanze
che potevano essere percorse solo dai mercanti e dagli eserciti e che, in
seguito, furono collegate con l'invenzione della stampa" (p. 80). Lettore
saputello, non storcere il naso per le date, posa quell'enciclopedia che
colloca il Rinascimento in Italia alla fine del XV secolo: intanto, anche
le veloci scorrerie nel passato fanno perdere un po' l'orientamento, e poi
qui si parla di un "umanesimo" strano, un'"ibridazione"
- per usare la terminologia degli autori - che non coincide con quello che
ti hanno insegnato a scuola (te lo spiego dopo). Per la verità questa
Tesi è a sua volta un'Antitesi, più precisamente un Rovesciamento:
il rovesciamento della Trascendenza in Immanenza, della divinità
creatrice in umanità produttiva[5].
Questa tesi-antitesi è comunque l'Origine che ci interessa, quindi
la considereremo senz'altro Tesi. Mi stai seguendo, lettore somarello, o
stai facendo confusione? Guarda che con la dialettica bisogna stare attenti.
Dunque, ricominciamo. Tesi: Umanesimo. Hai già capito che
questo "strano umanesimo" non consiste in un pugno di letterati
studiosi dei classici greci e latini, ma in una "moltitudine"
di miscredenti geniali come Pico della Mirandola, innovatori come l'imprenditore
schumpeteriano e produttivi come un operaio stakanovista. La "moltitudine"
possiede una potenzialità incredibile: ovvio che qualcuno ne voglia
approfittare. Antitesi: Illuminismo. Da Cartesio, a Hobbes, Rousseau,
Kant e Hegel... Lettore bello, te lo ridico: posa quell'enciclopedia e smettila
di fare le bucce alle date e alle definizioni. Se non l'hai capito, qui
si rifà la storia del pensiero e del mondo occidentale, quindi mettiti
comodo e abbi pazienza. Dunque, gli illuministi (Cartesio, Hobbes, Rousseau,
Kant, Hegel): tutta una serie di cattivoni all'opera per costruire una trascendentalità
mondana che tenga sotto controllo e possibilmente sfrutti l'operosa moltitudine
che ha scoperto l'immanenza. Il risultato di questi sforzi è il moderno
Stato sovrano, "dispositivo trascendentale" per eccellenza, "Dio
in terra" secondo la definizione di Hobbes (cfr. pp. 86-97).
Ora attento, caro lettore: dobbiamo fare un salto e correre un poco. Dalla
storia della filosofia si passa alla storia delle istituzioni politiche
(salto) seguendo (corsa) l'evoluzione degli Stati europei e la costruzione
della modernità che con tale storia si identifica: dalle grandi
monarchie del '700, all'invenzione ottocentesca del "popolo",
allo Stato-nazione che vorrebbe basarsi sul consenso ma degenera nei regimi
totalitari del '900, mostrando come l'Antitesi del potere sia insufficiente
a contenere la Tesi della moltitudine. Che fare? Intanto, piglia il fiato.
Si sa, la Ragione (specie quella dialettica) è astuta, e in realtà
ha già provveduto a suscitare, al di là dell'oceano, una Negazione
della Negazione, o per meglio dire un'Alternativa all'Antitesi: l'Impero.
L'esodo dei coloni verso le Americhe - moltitudine che si sottrae
alla modernità - "riscopre l'umanesimo rivoluzionario del Rinascimento
e lo realizza in scienza politica e costituzionale" (p. 156), ponendo
le premesse di una forma di sovranità affatto diversa da quella prevalsa
in Europa. La Rivoluzione americana è rivoluzione autentica (a differenza
di quella francese) e gli Stati Uniti (una federazione, non dimenticarlo)
sono fin dall'origine - fin dalla Dichiarazione d'Indipendenza - Impero
e non Stato-nazione; per di più, un Impero del Bene, o almeno un
Impero del Meno Peggio.
In ogni caso, le modalità del potere esercitato negli States
americani sono diverse da quelle in uso negli Stati europei. Prendiamo ad
esempio il modo con cui gli Europei si rapportano agli indigeni delle colonie:
una modalità basata su dualismi culturali Interno/Esterno, Io/Altro
(cfr. il cap. 3 della parte II, "La dialettica della sovranità
coloniale", p. 155 e ss.[6 ehi, questa
nota leggitela!]), fonti del razzismo moderno, di cui ben conosciamo
la ferocia. Prendiamo invece il modo con cui i coloni americani si rapportano
ai pellerossa: non li considerano un Altro culturale, ma un semplice ostacolo
naturale da rimuovere, così come si tagliano gli alberi e si sbancano
i sassi per far posto alle coltivazioni: "Così come la terra,
per essere coltivata, doveva essere liberata dagli alberi, allo stesso modo
doveva essere liberata dai nativi che l'abitavano. Così come i pionieri
dovevano proteggersi adeguatamente per fronteggiare i rigori degli inverni;
allo stesso modo essi dovevano armarsi contro le popolazioni indigene. I
nativi venivano considerati alla stregua di inconvenienti naturali"
(p. 163). Più carino, non ti pare?
Oddio, d'accordo, non sono state tutte rose e fiori, e poi c'è la
questione dei negri, non proprio edificante, e certi rapporti con l'America
Latina così aggressivi da sembrare "imperialisti" più
che autenticamente "imperiali", e la guerra del Viet Nam... Mettiamola
così: anche l'Alternativa all'Antitesi d'oltreoceano è intimamente
antitetica, dialettica, ha un'anima buona e un'anima cattiva. L'anima cattiva
tende a emulare lo Stato-nazione imperialista europeo: questa, ad esempio,
è la tentazione di Theodore Roosevelt, che "applicava un'ideologia
iperialista di marca europea" (p. 166). L'anima buona è quella
di Woodrow Wilson, che invece "adottava un'ideologia internazionalista
di pace" (p. 167). E quel che conta è che vince l'anima buona,
autenticamente democratica (ieri l'aveva intuito Toqueville, oggi lo riconosce
Hanna Arendt, cfr. p. 157): essa incarna una sovranità che non consiste
"nella regolazione esteriore della moltitudine, bensì è
la risultante delle sue sinergie" (p. 158). Il controllo, se c'è,
non risponde a un principio di repressione ma a un "principio di espansione",
non dissimile a quello praticato da Roma imperiale: se in presenza di conflitti
lo Stato-nazione europeo rafforza le frontiere esasperando le distinzioni
Interno/Esterno, Io/Altro, l'Impero americano le sposta, interiorizzando
l'esterno, includendo l'altro (cfr. pp. 161-165).
Ed eccoci alla Sintesi: l'Impero globale contemporaneo che
"si materializza sotto i nostri occhi" (p. 15). Senza più
barriere agli scambi economici e culturali, senza più distinzioni
tra interno ed esterno, senza più vincoli spaziali grazie all'informatizzazione
e alla comunicazione in rete, l'Impero è un non-luogo (cfr.
p. 181). Gli Stati Uniti non ne costituiscono il centro (cfr. p.
18), per il semplice motivo che un non-luogo non ha centro, né
il leader mondiale, poiché "nessuno Stato-nazione oggi
può farlo" (ibid.). Gli Stati Uniti sono stati gli
ispiratori dell'Impero, "basato sull'espansione mondiale del progetto
costituzionale americano" (p. 168), e per questo hanno - ammettiamolo
- una "posizione privilegiata" (p. 167). Ma sono essi stessi inglobati,
sussunti, al limite cancellati in una logica più vasta. L'impero
è il compimento del progetto internazionalista e pacifista di Wilson,
coronamento e Fine della storia, approdo del lungo (circa un millennio,
se si ha l'avvertenza di predatare un pochino l'Umanesimo) viaggio compiuto
attraverso la Tesi (Umanesimo), l'Antitesi (Stato-nazione
europeo) e l'Alternativa all'Antitesi (Impero americano) fino alla
suprema Sintesi dell'Impero sans phrase, in cui ritroveremo - secondo
le buone regole della dialettica - la Tesi finalmente liberata, felice e
contenta.
Che hai, lettore? Ci sei rimasto male? Non credi che l'Impero sia "internazionalista
e pacifista"? Ma vedi, Empire è stato pubblicato nel
2000, quando la guerra in Yugoslavia era ormai conclusa e quella in Afghanistan
non ancora cominciata. Qualche altro conflitto era comunque prevedibile,
tu dici? Ma dai, i profeti devono dirci come va a finire la Storia Universale,
non possono mica perdersi dietro questi dettagli. Dimmi la verità,
lettore bricconcello: la vecchia (pardon, moderna) categoria di "imperialismo"
ti piaceva di più! Su, vieni qui che ti racconto un'altra storia.
"E così la seconda storia che vi voglio raccontar..."
Il mio pubblico di (cinque, no quattro: uno è già scappato)
veteromarxisti si starà oltretutto chiedendo che fine ha fatto, in
questa storia, il capitalismo. Beh, nella prima storia non c'è,
è solo menzionato in una indicazione lapidaria: "la modernità
europea è inseparabile dal capitalismo" (p. 93). Il capitalismo
è l'oggetto di un'altra storia.
Anche quella del capitalismo è una Storia con la S maiuscola, una
"grande narrazione". In questo caso troviamo all'opera, più
che la dialettica hegeliana, la "dialettica tra forze produttive e
rapporti di produzione" di cui la tradizione marxista si è tanto
a lungo nutrita. Com'è noto, sulla base di questa dialettica è
stato costruito un modello evolutivo a stadi di sviluppo: per l'umanità
nel suo complesso (per questa è prevista una vera e proria evoluzione,
che trapassa dal fantomatico "comunismo primitivo" al modo di
produzione antico, a quello feudale, a quello capitalistico per approdare
un giorno al comunismo propriamente detto, ritrovando alla Fine l'Origine
in una forma dispiegata) e per il modo di produzione capitalistico autonomamente
considerato (per il quale abbiamo invece all'opera uno schema biologistico,
in cui i diversi stadi somigliano molto alla nascita, crescita, maturità,
vecchiaia e morte di un organismo vivente). Nella III parte di Empire
ci troviamo in questa seconda dimensione: più che la storia dell'umanità
ci interessano ora le tappe di sviluppo del capitalismo.
In Empire non si butta via niente (o poco[7]),
perciò si tratta innanzitutto di recuperare ciò che i marxisti
hanno già analizzato. Ci hanno detto che dallo stadio concorrenziale
il capitalismo passa allo stadio monopolistico (tendenza già
prevista da Marx) e, con questo, all'imperialismo. "Se si volesse
dare la definizione più concisa dell'imperialismo, si dovrebbe dire
che l'imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo"[8], diceva Lenin, facendo propria l'analisi
di Hilferding ma scartando alcune idee che prefiguravano l'impero, l'ipotesi
della banca mondiale così come il kautskiano "ultraimperialismo".
Troppa fretta? No, c'è un'altra spiegazione, come vedremo.
Tra i teorici dell'imperialismo, comunque, Hardt e Negri prediligono Rosa
Luxemburg. La nota tesi sottoconsumista viene ridotta all'osso (i bassi
salari significano bassi consumi, la crescita della composizione organica,
con la conseguente diminuzione del capitale variabile, "cioè
i salari pagati agli operai", significa consumi ancora più bassi,
dunque "la realizzazione del capitale è così bloccata
dalla questione di queste 'basi ristrette' dei poteri di consumo",
p. 213), attribuita allo stesso Marx (cfr. ibid.)[9],
elevata a contraddizione principale del capitalismo, a cui tutti gli altri
"limiti" e "barriere" del capitale possono essere ricondotti[10 leggi anche questa, ti prego!]. In ogni
caso, l'impostazione luxemburghiana ben si presta a dar conto della tendenza
del capitalismo all'espansione, alla "capitalizzazione dell'ambiente
non capitalistico" (p. 215), e a spiegare come "il processo di
capitalizzazione interiorizza il fuori" (ibid. Ma questa
"interiorizzazione dell'esterno" non era una caratteristica peculiare
dell'impero americano, ciò che anzi lo distingueva dall'imperialismo
europeo? Lasciamo perdere, questa è un'altra storia e non è
detto che debba essere coerente con la precedente).
Spinto dalle sue interne contraddizioni... No, spinto dalle lotte del proletariato...
Niente paura, abbiamo la dialettica per mettere a posto queste cose, no?
Guardate come si fa: "la crisi capitalistica non è mai una mera
funzione della dinamica del capitale, ma è direttamente provocata
dall'antagonismo proletario" (p. 246). Oplà[11
nemmeno questa te la puoi perdere]. Comunque spinto, il capitalismo
esaurisce anche la fase imperialista e trapassa ad un nuovo stadio di sviluppo.
Il New Deal rooseveltiano ne costituisce il modello, che dagli Stati
Uniti verrà esportato in tutti i paesi occidentali nel secondo dopoguerra.
Le sue caratteristiche sono la regolazione economica affidata allo Stato,
le politiche keynesiane, il welfare state. Come si chiama questo
nuovo stadio di sviluppo? "Capitalismo monopolistico di Stato!",
diranno subito i miei lettori veteromarxisti. "Fordismo!", dirà
un seguace della scuola regolazionista di passaggio. Sbagliato. Si chiama
Impero. Visto? Ci siamo arrivati per un'altra strada, ma ci siamo
arrivati lo stesso: tutte le strade portano all'Impero, come una volta portavano
a Roma.
E scopriamo che Lenin ci aveva imbrogliati, definendo l'imperialismo "stadio
supremo" (cioè ultimo) del capitalismo. Imbrogliati scientemente,
poiché ben sapeva (conosceva le tesi ultraimperialiste, no?) che,
di fronte alla crisi gravissima sfociata nella Prima Guerra Mondiale, due
erano le strade che la storia avrebbe potuto imboccare: la Rivoluzione
o l'Impero. Ha negato la possibilità dell'esito Impero perché
voleva a tutti i costi realizzare la Rivoluzione, subito, prima che il capitalismo
conseguisse la piena maturità (cfr. p. 217 e ss.).
Fallita la Rivoluzione, ci ritroviamo con l'Impero, questo sì "stadio
supremo", per due motivi. In primo luogo, perché in questo stadio
la disciplina di fabbrica viene imposta all'intera società (sì,
è la vecchia tesi operaista, bravi, l'avete riconosciuta): "il
modello del New Deal [...] ha prodotto la più alta forma di
governo disciplinare", "una società disciplinare è
una società-fabbrica" (p. 230). In secondo luogo, perché
in seguito ai processi di decolonizzazione si passa dalla sussunzione
formale del mondo al capitale, caratteristica del vecchio imperialismo
a "espansione estensiva", alla sussunzione reale del mondo
al capitale, il quale pratica oggi un'"espansione intensiva" (cfr.
pp. 240-244).
"Nel momento culminante del finale travolgente"
E' stato un bene, mio caro lettore veteromarxista che sei rimasto ormai
solo ad ascoltare la fine di questa storia (che è poi la fine di
tutte le storie[12], o della Storia tout
court), è stato proprio un bene che il progetto di Lenin sia
fallito e che l'Impero abbia potuto alfine svilupparsi e dilagare senza
più limiti su questa terra. Come dice il poeta, Wo aber Gefhar
ist, wachst Das Rettende auch, là dove c'è il pericolo,
cresce anche la salvezza.
L'Impero ci salverà innanzitutto dal disastro ecologico: la "sussunzione
reale" del mondo, cioè il suo sfruttamento intensivo, coincide
infatti con l'era del postindustriale, che come sai è pulito,
piccolo e bello. "Questa sembra essere la vera risposta capitalistica
alla minaccia del 'disastro ecologico', una risposta che guarda al futuro"
(p. 255).
Soprattutto (tienti forte, ci siamo!) l'Impero ha prodotto il Soggetto antagonista
per eccellenza, il più potente, il più creativo, il più
incredibile Militante mai visto: il lavoratore sociale, che subentra
alle precedenti figure dell'operaio professionale e dell'operaio massa[13 anche questa è carina]. Se l'operaio
professionale (corrispondente alla "fase di produzione industriale
precedente il dispiegamento completo dei regimi taylorista e fordista",
p. 378) riscattava il lavoro produttivo, se l'operaio massa ("che corrisponde
al dispiegamento dei regimi taylorista e fordista", ibid.) osava
addirittura progettare "una soluzione di ricambio reale al sistema
capitalistico" (ibid.), il lavoratore sociale (che corrisponde
alla fase del "lavoro immateriale") può finalmente "esprimersi
come autovalorizzazione dell'umano", realizzando "un'organizzazione
del potere produttivo e politico come unità biopolitica gestita dalla
moltitudine, organizzata dalla moltitudine, diretta dalla moltitudine -
la democrazia assoluta in azione" (p. 379).
Wow! Dove? Quando? Ma qui, ora, subito! L'Impero cadrà, sta per cadere,
cade, è già caduto! E che ci vuole? In fondo è solo
una questione di atteggiamento mentale: basta opporre - come faceva Francesco
d'Assisi (protagonista dell'ultimo elzeviro, MILITANTE, pp. 494-496)
la gioia di vivere alla miseria del potere. Tremate, potenti: un sorrisetto
vi seppellirà. E voi, moltitudini, andate in pace: il "malloppo"
è finito.
Se avete ancora un po' di tempo e di pazienza, tuttavia, restate. C'è ancora qualche osservazione da fare, qualche altra contraddizione da segnalare.
Impero, Stato e mercato.
Negri è sempre stato un ottimista e un sognatore, anzi, un sognatore
ottimista: se sogna un mostro (ieri lo "Stato-piano", oggi
l'"impero"), lo sogna morto; se sogna un eroe (ieri l'"operaio
sociale", oggi la "moltitudine"), lo sogna vivo e vincente.
Non lo nego, sognare è bello. Soffrire di allucinazioni, molto meno.
E vedere un impero caduto e un comunismo trionfante dove c'è invece
un capitalismo aggressivo, uno stato di guerra quasi permanente, un movimento
operaio sconfitto, più che una bella utopia mi sembra francamente
un'allucinazione. Non voglio tuttavia discutere gli aspetti onirici o allucinati
di Empire, che in fondo rappresentano il lato più originale
di quest'opera e che qualche cultore del genere fantasy potrebbe
anche apprezzare. Preferisco soffermarmi brevemente sui pochi strumenti
analitici che Empire suggerisce e che potrebbero anche essere presi
sul serio, ma che a me sembrano inadeguati e fuorvianti. In generale, giocare
la categoria di "impero" contro quella di "imperialismo"
mi pare una mossa tutto sommato perdente: per un amore di novità
che ha poi alle spalle il vecchio vizio marxista di leggere ogni trasformazione
come uno stadio ulteriore (nella speranza che sia finalmente quello
supremo), ci si libera troppo frettolosamente di categorie che forse
aiutano a leggere la realtà contemporanea in modo più avvertito.
E anche l'idea del declino dello stato-nazione - che Hardt e Negri non sono
certo gli unici a proporre: il dibattito sulla globalizzazione se ne sta
nutrendo da anni[14] - merita un supplemento
di riflessione.
L'impero di Hardt e Negri, questa nuova forma del potere politico che dello
stato avrebbe preso il posto, è a dir poco sfuggente (è nato
alla fine del '700 con la Dichiarazione d'Indipendenza americana, oppure
nel '900 con il New Deal, o invece "si materializza sotto i
nostri occhi" nel Terzo Millennio? pratica l'autentica democrazia,
la "disciplina" fordista o il "controllo" postfordista?);
tuttavia, verso la fine del volume, un piccolo sforzo di dare almeno l'idea
della sua struttura viene compiuto, ricorrendo - almeno come metafora -
alla descrizione dell'Impero romano di Polibio. Secondo Polibio, "l'impero
romano rappresentava l'apice dello sviluppo politico in quanto riuniva le
tre forme 'buone' del governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - rispettivamente
incorporate nelle figure dell'Imperatore, del Senato e dei comitia popolari"
(p. 294). Analogamente, oggi abbiamo un Imperatore, cioè "un
superpotere, gli Stati Uniti, che esercitano l'egemonia sull'utilizzo globale
della forza" (p. 290); un Senato, ossia "un gruppo di Stati-nazione
che controlla i principali strumenti monetari globali tramite i quali regola
gli scambi internazionali" (ibid.), sostenuto dalle "società
capitaliste transnazionali" (p. 291) di cui rappresenta gli interessi;
e dei comitia, cioè "organismi che rappresentano gli
interessi popolari nel dispositivo del potere globale" poiché
"la moltitudine non può essere integrata direttamente nella
struttura del potere globale, ma deve essere filtrata mediante meccanismi
rappresentativi" (ibid.). Questi apparati di mediazione sono
assai vari: Stati-nazione, media, organizzazioni religiose, ONG (queste
ultime ritenute particolarmente significative data la loro dimensione metanazionale,
cfr. pp. 293-296).
Una ricostruzione suggestiva (anche se decisamente premoderna, se
dobbiamo credere a Foucault[15]), ma
fuorviante, in primo luogo per la separazione tra potere economico e potere
politico-militare che suggerisce. Qui si fa un brutto passo indietro rispetto
alle vecchie (ma almeno moderne) teorie dell'imperialismo. Il termine
"imperialismo" coniato a cavallo tra '800 e '900, infatti, designava
precipuamente (e non solo presso gli autori marxisti) la connessione
tra le politiche di aggressione militare praticate da quelli che
erano gli Stati forti, le "grandi potenze" dell'epoca, da un lato,
e, dall'altro, processi economici quali l'esportazione di capitali,
la formazione del capitale finanziario, l'azione dei grandi monopoli internazionali.
Il termine "impero", nell'accezione proposta da Hardt e Negri,
spezza proprio tale connessione. La globalizzazione del mercato risulta
in quest'ottica un processo esclusivamente economico, in quanto tale
sostanzialmente "pacifico" (certo, implica lo sfruttamento e un
po' di sana concorrenza, ma nulla ha a che fare con aspetti propriamente
militari), addirittura esente da conflitti intercapitalistici, grazie
alla gestione sovranazionale degli strumenti monetari[16].
Viceversa, la guerra ha ragioni extraeconomiche, è
puro esercizio di potere da parte di Sua Maestà l'Imperatore USA,
oppure è davvero condotta a garanzia di valori universali
affidati a un "tertium super partes" (cfr. p. 23 e ss.),
e benché gli indici di Borsa siano sensibilissimi ai suoi risultati
nulla ha a che fare con gli interessi del mercato e del capitalismo.
Sarà anche vecchio, vecchissimo "economicismo", ma è
poi così sbagliato vedere questioni economiche dietro le ultime guerre
condotte dagli Stati Uniti? Questioni di petrolio dietro la guerra del Golfo;
la necessità di garantirsi il controllo in un'area economicamente
strategica dietro l'attuale intervento in Afghanistan; la volontà
di dare segnali forti a possibili competitori economici (la Germania,
rafforzata dall'area europea, con le sue mire verso i mercati dei paesi
ex socialisti) dietro la recente guerra di Yugoslavia. Certo, esiste anche
una logica "di potenza" relativamente (solo relativamente)
autonoma: ma anche questa è una logica di parte, si esplica
in un quadro - per citare il Foucault che tanto piace ai Nostri - di "concorrenza
statale", in quel "tempo indefinito in cui gli Stati devono lottare
gli uni contro gli altri" in cui domina la "ragion di Stato"[17]. In ogni caso, se non ci sono solo
ragioni economiche, sicuramente non si sbaglia a dire che ci sono anche
queste.
Del resto, la guerra è anche un enorme business: alimenta
un potente settore industriale (materialissimo, e con ricadute enormi in
altri settori, materiali e immateriali). E gli Stati Uniti esercitano anche
un'egemonia economica: troppo spesso, parlando di crisi, recessione, cattiva
salute dell'economia americana, enfatizzando dati negativi relativi alla
crescita o al debito di questo paese, si finisce col sostenere che gli Stati
Uniti hanno nei confronti degli altri paesi forti una supremazia puramente
militare. A mio avviso, dopo la crisi degli anni '70 e le paure degli anni
'80, gli Stati Uniti hanno ampiamente consolidato anche una supremazia economica:
grazie all'industria bellica (vero moltiplicatore della crescita
economica statunitense, altro che welfare), grazie alle ricche ricadute
di questa nell'industria civile (trasporti, chimica, componentistica, hardware,
software e altro ancora), grazie alla ricerca scientifica (in gran parte
spinta dalla ricerca per scopi militari), grazie non da ultimo a un accorto
protezionismo tariffario e non tariffario, a politiche monetarie pro
domo sua, a interventi di sostegno delle aziende in crisi: ma che politiche
da Stato-nazione, per un paese che - a voler dar retta a Hardt e Negri -
Stato-nazione non è mai stato! Alla faccia del conclamato neoliberismo,
la ricetta USA sembra decisamente "più mercato e più
Stato".
Umanesimo
Per concludere, mi sento in dovere di fare qualche pulce alla categoria
di "umanesimo" impiegata dagli autori e centralissima nella loro
argomentazione. "Strano umanesimo", come ho già detto:
strano perché è il prodotto di una ibridazione (o di
un contagio? di un meticciato? di una corruzione? tutte
queste cose sono comunque molto, molto imperiali e postmoderne) tra la cultura
anglosassone e quella italiana degli autori. Per un anglosassone, umanesimo
significa in primo luogo "a system of belief and standards concerned
with the needs of people, and not with religious ideas", dunque laicismo
o ateismo, e solo in secondo luogo "the study in the Renaissance of
the ideas of the ancient Greeks and Romans" (Longman, Dictionary
of English Language and Culture). Per un italiano, l'Umanesimo è
un glorioso capitolo della storia patria: è il "movimento intellettuale
che accompagnò la nascita e lo sviluppo del rinascimento (seconda
metà del sec. XIV-XVI)" (Garzanti, Nuova enciclopedia universale),
quello di Petrarca, Alberti, Ficino e Pico della Mirandola. Per intenderci,
chiameremo il primo "significato filosofico", il secondo "significato
storico" del termine umanesimo. L'ibridazione tra i due consiste in
pratica nel sostenere che Petrarca, Alberti, Ficino e Pico della Mirandola
(insieme ad altri autori, precedenti o successivi, ma ritenuti in qualche
modo filosoficamente irrinunciabili, primo tra tutti Spinoza) riscoprirono
non già i ciceroniani studia humanitatis, ma l'ateismo. Più
precisamente, a questi autori (considerati peraltro espressioni della "moltitudine",
vera artefice di questa rivoluzione culturale) si deve il rovesciamento
della trascendenza in immanenza, la sostituzione dell'uomo a dio nella prerogativa
della creazione.
Per la verità il "significato filosofico" (anglosassone)
del termine ha un precedente ottocentesco (ed europeo: me ne scuso con Hardt,
ma è impossibile non essere eurocentrici nel campo della storia della
filosofia occidentale): penso soprattutto a Feuerbach, che usò appunto
il termine "umanesimo" per caratterizzare la propria posizione
antiteologica e antispeculativa. Ed è ben noto che Marx criticò
pesantemente l'umanesimo feuerbachiano nelle Tesi su Feuerbach e
nell'Ideologia tedesca, in quanto fondato su un'idea metastorica
di uomo. Di umanesimo si parlerà ancora nel '900 con Sartre (L'esistenzialismo
è un umanesimo); soprattutto, nel '900, si parlerà molto
autorevolmente di antiumanesimo: dalla Lettera sull'umanesimo di
Heidegger, alle posizioni "antiumanistiche" di Althusser (emblematica
- e molto esplicita - è la parte finale del saggio E' facile esseremarxisti
in filosofia?) e di Foucault (penso soprattutto allo straordinario capitolo
"L'uomo e i suoi duplicati" di Le parole e le cose).
Che guaio! Gli autori preferiti dei Nostri - Marx, Althusser, Foucault -
sono critici dell'umanesimo filosofico! Che fare? L'elzeviro
L'UMANESIMO DOPO LA MORTE DELL'UOMO (pp. 125-126) tenta di salvare capra
(umanesimo) e cavoli (Althusser e soprattutto Foucault): a forza di giochi
di parole e di botte di dialettica, sostenendo che Il Foucault delle ultime
opere (quelle sulla "cura del sé") è, in realtà,
umanista, anzi uno dei migliori seguaci dell'umanista più bravo di
tutti che è Spinoza, il che comunque non contraddice le opere precedenti,
ma configura un interessante "umanesimo antiumanista (o post umano)"
(p. 126), del tutto in linea con il progetto rinascimentale. Povero Foucault,
frullato nella dialettica!
La contraddizione, in realtà, questa volta è insanabile, non
c'è dialettica che tenga: in primo luogo, perché l'"umanesimo
filosofico" proposto da Empire è proprio quello criticato
da Marx, Althusser e Foucault; in secondo luogo, perché non ci sono
sintesi abbastanza potenti da tenere insieme impostazioni teoriche incompatibili:
lo storicismo umanistico professato da Hardt e Negri non può avere
che un rapporto di Realrepugnanz con il radicale antistoricismo di
Althusser, con la critica al "marxismo umanistico" che questo
autore ha costantemente portato avanti, con il sistematico smontaggio delle
"scienze umane" cui Foucault ha dedicato una vita di studi. Non
è un problema da poco, perché, tra i 126 autori (li ho contati)
citati in Empire, Althusser e Foucault sono, per così dire,
quelli davvero presenti: importanti, presi sul serio, utilizzati. A loro
vengono tributati interi elzeviri, le loro categorie sono ampiamente
riprese, impiegate, rielaborate.
Althusser, forse, delle due è l'auctoritas minore. La lezione
principale che Hardt e Negri ne traggono consiste nell'individuare in Spinoza,
Machiavelli e Marx i punti più alti del pensiero politico occidentale
autenticamente democratico. Un simile prestito, senz'altro limitato, consente
forse di passare sotto silenzio aspetti fondamentali dell'elaborazione althusseriana,
assai difficili da integrare in uno zibaldone come Empire, pure apparentemente
in grado di metabolizzare qualsiasi cosa. In primo luogo, la critica al
"marxismo umanistico", appunto, sotto la quale l'impianto di Empire
ricade totalmente. Sentite Althusser: "E' in causa [...] la pretesa
teorica di una concezione umanistica di spiegare la società e la
storia, partendo dall'essenza umana, dal soggetto umano libero, soggetto
dei bisogni, del lavoro, del desiderio, soggetto dell'azione morale e politica.
Io sostengo che Marx non ha potuto fondare la scienza della storia e scrivere
Il Capitale se non a condizione di rompere con la pretesa teorica
di ogni umanismo di questo genere"[18].
Sembra scritto contro Empire. In secondo luogo, la critica radicale
a ogni "filosofia della storia" e, in particolare, a quella che
la tradizione marxista ha confezionato "con un certo numero di formule
di Marx ed Engels [...], questo hegelismo rovesciato che alimenta un'impossibile
e impensabile filosofia della storia [...], la cattiva filosofia della rivoluzione
inevitabile come Fine dei Tempi, come compimento dell'essenza umana, ecc."[19]: calza come un guanto alle storie
narrate da Hardt e Negri. In terzo luogo, la critica al soggettivismo: come
conciliare una dinamica capitalistica pensata come "processo senza
soggetto" con l'idea tutta operaista della soggettività operaia
che spinge e plasma il capitalismo e le sue trasformazioni? come conciliare
le tesi sul "materialismo aleatorio" degli ultimi scritti althusseriani
con "la storia prodotto dell'azione umana", per di più
coerente e prevedibile al punto che possiamo contemplarne la fine, mostruosa
storia al tempo stesso retta da leggi e mossa da soggettività coscienti
che troviamo all'opera in Empire?
Con Foucault le cose vanno ancora peggio, perché il prestito è
più cospicuo. Di Foucault vengono ripresi i concetti di "biopolitica"
e "biopotere": Negri se n'è invaghito da qualche anno,
e continua a farne un uso improprio. "Il comando imperiale non si esercita
secondo le modalità disciplinari dello stato moderno, bensì
con le modalità del controllo biopolitico" (p. 319), leggiamo
in Empire. Ancora: "l'Impero costituisce la forma paradigmatica
del biopotere" (p. 16). Peccato che, in Foucault, la "biopolitica"
designi invece la peculiare tecnologia di potere che opera nello Stato-nazione,
l'"arte di governare" legata all'emergere della "ragion di
Stato"[20]; e peccato che, per
Foucault, il "biopotere" si caratterizzi proprio le modalità
disciplinari del suo esercizio[21].
Ma allora come è possibile, restando fedeli a Foucault, attribuire
la biopolitica all'Impero (alla scomparsa dello Stato-nazione anziché
alla sua comparsa) e negare il suo carattere disciplinare?
Non disperate, i nostri acrobati non temono nulla, tantomeno le contraddizioni.
Li abbiamo già visti ricorrere ai libri del Capitale che Marx
non ha scritto: a Foucault riservano un trattamento analogo, attribuendogli
una distinzione tra società disciplinare e società del controllo:
"Per molti aspetti, l'opera di Michel Foucault ha preparato il terreno
all'analisi del funzionamento concreto del comando imperiale. In primo luogo,
essa ci permette di individuare un passaggio storico fondamentale nelle
forme sociali, e precisamente, il passaggio dalla società disciplinare
alla società del controllo" (p. 38). In nota, leggiamo
che "pur non essendo articolato esplicitamente da Foucault, il passaggio
dalla società disciplinare alla società del controllo rimane
implicito nelle sue opere": insomma, non l'ha mai detto ma qualche
volta deve averlo pensato, e comunque il gioco è fatto, l'uno si
è diviso in due e abbiamo ottenuto un concetto per lo Stato-nazione,
la "disciplina", e un concetto per l'Impero, il "controllo".
Ora si tratta di definire in che cosa il controllo sia diverso dalla disciplina,
e qui le cose si fanno un po' più difficili: il controllo è
una disciplina più interiorizzata e più ampia, "la società
del controllo può quindi essere definita come una intensificazione
e generalizzazione dei dispositivi normalizzatori della disciplina [...]
che si estende ben oltre i luoghi strutturati dalle istituzioni sociali,
mediante una rete flessibile e fluttuante" (p. 39). Un cambiamento
un po' troppo semplicemente quantitativo per segnare una svolta epocale?
Possiamo sempre sperare, hegelianamente, in un salto dalla quantità
alla qualità. Il controllo, insomma, è una sorta di stadio
supremo della biopolitica, in cui la biopolitica "non si limita
a regolare le interazioni umane, ma cerca di dominare la natura umana"
(p. 16).
In quest'ultima frase è possibile cogliere, al di là delle
forzature e degli usi impropri dei testi foucaultiani, l'effettiva incompatibilità
tra la concezione del potere proposta da Foucault e quella degli autori
di Empire. Per Foucault il biopotere non domina la natura umana,
la crea. In questo consiste l'"antiumanesimo" di Foucault,
impossibile da conciliare con l'"umanesimo" di Hardt e Negri:
non c'è un Uomo autentico oppresso dal potere, è una specifica
forma di potere (più precisamente, le pratiche discorsive ad esso
collegate) che ha creato la peculiare nozione prometeica di Uomo che ancora
circola nelle società occidentali e che Hardt e Negri puntualmente
ci ripropongono. Il potere moderno, ci insegna Foucault, ha modalità
positive, costruttive e non meramente repressive: ma questa lezione non
può essere accettata se si vuole tutta la creatività dalla
parte della moltitudine oppressa. "Prima della fine del XVIII secolo
l'uomo non esisteva, come non esistevano la potenza della vita, la
fecondità del lavoro, lo spessore del linguaggio. E' una creatura
recentissima quella che la demiurgia del sapere fabbricò con le sue
mani, meno di duecento anni or sono. Ma l'uomo è invecchiato così
in fretta che si è potuto facilmente pensare che egli avesse atteso
nell'ombra, per la durata di millenni, il momento d'illuminazione in cui
sarebbe stato infine conosciuto"[22].
Ed ecco qui Hardt e Negri che ancora una volta, dopo Adam Smith, dopo Feuerbach,
riscoprono l'uomo, la potenza della vita, la fecondità del lavoro,
la forza creatrice del linguaggio.
Prima di flirtare dell'altro con Foucault, bisognerà prendere una
decisione: è il biopotere che plasma l'uomo, o è la moltitudine
che possiede da sempre il biopotere, e che smettendo di porlo al servizio
del capitale realizzerà finalmente il comunismo? Il lieto fine di
Empire in cui "il biopotere e il comunismo, la cooperazione
e la rivoluzione restano insieme semplicemente nell'amore, e con innocenza"
(p. 382), suggerisce questa seconda prospettiva. Contro la lezione
di Foucault che, come ogni pensatore davvero critico, ci impone il prezzo
dell'abbandono delle ideologie consolatorie.
[1] Lo dicono gli autori stessi: "può essere letto in molti modi diversi: dall'inizio alla fine e viceversa, per singole parti, soltanto qua e là, o basandosi su corrispondenze" (p. 18).
[2] Dall'elzeviro intitolato IL POVERO apprendiamo infatti che la "moltitudine" è costituita dai "poveri" - "Il povero [...] è il comune denominatore della vita, il fondamento della moltitudine" (p. 153).
[3] La rivendicazione di questo carattere della storia è contenuta nell'elzeviro CICLI (pp. 225-227).
[4] Nonostante il valore attribuito all'"immanenza", l'ispirazione religiosa v ben presente nei frequenti richiami all'Esodo, all'agostiniana Città celeste, a suggestioni gnostiche (di cui lo stesso termine moltitudine - moltitudo è traduzione latina di pleroma - è un sintomo). Anche per questo aspetto Empire si presenta come un prodotto multiculturale largamente fruibile, buono per atei (grazie all'ambiguità del termine "umanesimo", che nella cultura americana significa in prima istanza "a system of belief and standards concerned with the needs of people, and not with religious ideas" e solo in secondo luogo "the study in the Renaissance of the ideas of the ancient Greeks and Romans", cfr. Longman, Dictionary of English Language and Culture) come per credenti di diverse confessioni (che, a seconda della religione di appartenenza, potranno leggere l'epopea della moltitudine come viaggio del popolo eletto verso la terra promessa, come vicenda di salvazione, come città celeste in pellegrinaggio sulla terra, come risalita alla pienezza divina del pleroma-multitudo, ecc.). Un occhio di riguardo spetta comunque al mondo cattolico, dal momento che l'eroe eponimo della moltitudine, prototipo e figura universale del militante, è San Francesco d'Assisi, protagonista dell'elzeviro che chiude il volume (MILITANTE, pp. 380-382). Gli islamici non si perdano d'animo, un posticino c'è anche per loro, in quanto rappresentanti della postmodernità non sto scherzando: cfr. pp. 144-147).
<[5] Il più grande campione di rovesciamento è Spinoza, la cui filosofia "rinnovava gli splendori dell'umanesimo rivoluzionario, che metteva l'umanità e la natura nella posizione di Dio, che trasformava il mondo nell'orizzonte dell'azione e che affermava la democrazia della moltitudine come forma assoluta della politica" (p. 86). E' uno Spinoza che, per i miei gusti, somiglia un po' troppo a Feuerbach, ma accontentiamoci./p>
[6] Da segnalare che in questo capitolo l'uso della dialettica è cosí massiccio (la usano contemporaneamente gli autori per spiegare le modalità del dominio coloniale e i colionalisti per imbrogliare la moltitudine) da produrre affermazioni del tipo: "la realtà non è dialettica, il colonialismo lo è" (p. 169). Overdose?
[7] In una ricostruzione che accoglie e apprezza piò o meno tutti i contributi marxisti appianando ogni disputa interpretativa (c'è posto per il marxismo ortodosso e per quello eterodosso, per Lenin e per Kautsky, per Gramsci, per la Scuola di Francoforte, per Althusser, per la Scuola della Regolazione, oltre naturalmente a "un gruppo di marxisti italiani contemporanei" che scrivono sulla rivista francese Futur antérieur - cfr. p. 55 e nota 16 - il cui caposcuola non viene nominato per modestia, ma ha un cognome che inizia con "Ne" e finisce con "gri"), l'unico secco ostracismo è riservato alla cosiddetta Scuola del Sistema Mondo e a Giovanni Arrighi in particolare, cui è dedicato uno sdegnato elzeviro (CICLI, pp. 225-227). Che l'idea della ciclicità e ricorsività della dinamica capitalistica avanzata da questo autore risulti indigesta ai Nostri è piuttosto comprensibile: essa urta in effetti pesantemente con le "grandi narrazioni" utilizzate da Hardt e Negri, oltre che con il forte soggettivismo che ha sempre caratterizzato l'impostazione operaista.
[8] Vladimir Ilic Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti 1974, p. 128.
[9] Sulla base di alcune citazioni dal III libro del Capitale di Marx, di cui almeno una - quella riportata nel testo - mi suona sospetta. Impossibile verificare, poiché la nota relativa non riporta la pagina. Senza voler fare i pedanti - magari osservando che, oltretutto, ormai si dovrebbe tener conto dell'edizione critica delle opere di Marx ed Engels della MEGA (la quale ha prodotto una vistosa potatura del libro III del Capitale) - e senza tirare in ballo la filologia, è comunque evidente che attribuire a Marx un'interpretazione sottoconsumista delle crisi è - per usare un eufemismo - riduttivo.
[10] Con ciò Empire propone una drastica semplificazione delle elucubrazioni operaiste sui celeberrimi passi dei Grundrisse, ritenuti fondamentali da questa scuola di pensiero e oggetto di esegesi infinite quanto astruse. Contraddizioni dialettiche, barriere intrinseche, negazioni delle negazioni, tutto si riduce a un problema di sottoconsumo: "questi limiti sono altrettante espressioni di un unico grande limite costituito dalla relazione irriducibilmente ineguale tra il lavoratore in quanto produttore e il lavoratore in quanto consumatore" (p. 212). L'operazione è davvero coraggiosa: merita a mio avviso un plauso, prima che un impaziente "potevate dirlo subito!".
[11] L'ho messa già facile per non spaventare i miei lettori veteromarxisti (ormai saranno ridotti a tre), ma l'operazione di conciliare l'oggettivismo del marxismo ortodosso con il soggettivismo di marca operaista è in realtà assai complessa. Per questa autentica acrobazia, che "costringe a ricombinare le cause efficienti e le cause finali" (p. 223), gli autori scomodano Nietzsche e si appoggiano ai "volumi mancanti del Capitale di Marx" (pp. 222-224). Un numero da circo.
[12] Te ne ho risparmiate un paio. Quella dello sviluppo delle forze produttive, attraverso l'epoca dell'Agricoltura, l'era dell'Industria (modernizzazione) e l'età dei Servizi (postmodernizzazione): sì, la vecchia e vilipesa teoria degli stadi di sviluppo può anche andare bene, purché la si interpreti in modo non meramente quantitativo, ma qualitativo e gerarchico (cfr. pp. 263-265). E quella della formazione del Soggetto Rivoluzionario, che ti riassumerò tra poco - lo giuro - in pochissime righe.
[13] Veramente Negri, dopo la trasformazione dell'operaio professionale in operaio massa e in "operaio sociale", aveva previsto figure ulteriori, come l'Intellettualità di massa (espressione del mondo informatico e compiuta incarnazione del General Intellect) e, in scritti più recenti, l'Imprenditorialità collettiva (espressione del decentramento produttivo, del distretto industriale e del lavoro autonomo), tutte prodotte con il medesimo procedimento: dedotte teoricamente da sviluppi reali o virtuali dell'organizzazione capitalistica del lavoro, queste figure diventano per incanto sociologicamente vere (si tratta al massimo di dar loro corpo con qualche esempio ad hoc, sulla cui generalizzabilità non si discute). Anche in questo caso - come per le interpretazioni dei Grundrisse - Empire rappresenta una sorta di automutilazione teorica. Ma la dizione lavoratore (anziché operaio) sociale possiede in effetti una indeterminazione sufficiente a renderla compatibile con l'ineffabile Moltitudine di cui Empire narra la millenaria epopea.
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