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aggiornato: 10-04-2014           wildcat.zirkular.thekla.materiali.italiano

Wildcat 96, primavera 2014

Vivere nella crisi: lotte sociali in Italia

In Italia, nel corso degli anni sessanta e settanta, parallelamente alle lotte che avevano come epicentro la fabbrica fordista, si sviluppò, nei quartieri popolari delle città, un ciclo di lotte sociali attorno alla rivendicazione di case e accesso a servizi essenziali come elettricità e riscaldamento. Nello scenario delle poderose migrazioni interne, le città industriali del nord, le cui fabbriche aprivano i cancelli a nuovi assunti provenienti dal Sud del Paese, subivano profonde mutazioni urbanistiche, con la costruzione di interi nuovi quartieri residenziali periferici. Non era raro che operai di recente immigrazione dormissero nelle stazioni ferroviarie o si assiepassero in piccole stanze pagando affitti esorbitanti a piccoli o grandi speculatori immobiliari. Di fronte all'assenza di soluzioni abitative e all'esproprio da parte del capitale immobiliare di quote rilevanti del salario operaio, nacque un movimento autorganizzato che portò all'occupazione di numerosi palazzi e appartamenti e che costrinse il governo centrale e le amministrazioni locali a costruire nuove residenze popolari a canoni sociali e ad introdurre, per via legislativa, canoni calmierati sul mercato immobiliare. Similarmente, vennero allestite da comitati cittadini e di quartiere, in collaborazione con i lavoratori delle compagnie pubbliche, campagne di autoriduzione delle bollette delle utenze, volte al contenimento dei prezzi pagati dalle famiglie proletarie per luce e gas.

Le tensioni abitative, lungi dallo spegnersi nonostante il declino delle lotte operaie a partire dagli anni ottanta, sono state affrontate nei seguenti decenni dai vari comitati territoriali per il diritto alla casa sorti in particolar modo in quelle metropoli come Milano e Roma, nelle quali è esplosa una vera e propria “emergenza casa”, specialmente a partire dagli anni novanta, ossia all'inizio delle migrazioni dall'Est Europa e da altri continenti. Ai palazzi occupati nel corso delle lotte autonome degli anni settanta, e che ancora oggi resistono a ipotesi di sgombero, si sono affiancate decine di altre occupazioni abitative nelle quali ha fatto la sua comparsa la figura del proletario migrante. Le nuove occupazioni hanno contrastato la bolla speculativa sul mattone proprio nella fase in cui essa raggiungeva il suo culmine, con la fine dell'equo canone, la cementificazione del territorio, i processi di riconversione delle aree industriali dismesse, le cartolarizzazioni del patrimonio immobiliare pubblico, migliaia di appartamenti nuovi lasciati sfitti.

L'edilizia privata imperversava attraverso le nuove costruzioni, autorizzate dai piani regolatori con i quali il sistema dei partiti garantiva, impiegando la bacchetta magica del cambio di destinazione d'uso delle aree delle città, la spartizione del territorio tra cordate bancario-immobiliari. Al contempo, si andava riducendo l'edilizia residenziale convenzionata, gestita ormai da enti di diritto privato nei cui CdA sedevano manager di nomina politica in alcuni casi in odore di 'ndrangheta, come ad esempio nell'azienda lombarda per l'edilizia residenziale (Aler): la vendita o svendita delle case popolari veniva giustificata da enormi buchi di bilancio dovuti ad anni di malaffare e corruzione, mentre migliaia di alloggi pubblici restavano sfitti, spesso in stato di abbandono. Per tamponare un'emergenza abitativa che vedeva coinvolte decine di migliaia di famiglie baraccate o ammassate in tendopoli alle periferie delle grandi agglomerazioni urbane, le amministrazioni comunali hanno improvvisato soluzioni temporanee come quelle dei residence o dei centri accoglienza, senza tuttavia affrontare il bandolo della matassa.

La tensione abitativa era dunque già forte al momento dello scoppio della bolla subprime nel 2007; la crisi economica conseguente e le misure di tagli al budget statale, imposte da BCE e FMI ai governi collaborazionisti di Monti e Letta, non hanno fatto altro che peggiorare le condizioni di vita quotidiana di milioni di persone. La crisi ha sepolto definitivamente il modello di patto sociale fordista, frutto di una mediazione tra le lotte operaie e le necessità del comando capitalistico sulla riproduzione sociale complessiva. Un bisogno primario come quello della casa è stato completamente privatizzato e mercificato, demandato alla sfera della finanza. Le risposte istituzionali a quella che viene definita “emergenza abitativa” non mirano al soddisfacimento dei bisogni di migliaia di sfrattati e senza casa, quanto alla ripresa dei processi si valorizzazione laddove il meccanismo della rendita si è inceppato: contributi all'affitto per i padroni di casa, allestimento di baraccopoli come nei dopo-terremoto, indebitamento individuale. L'asservimento delle politiche abitative alle esigenze del capitale ha condotto a un'escalation di sfratti e pignoramenti: con la perdita del lavoro o la compressione del salario numerosissime famiglie non sono più state in grado di far fronte alle spese per il pagamento di un mutuo sulla casa o di un affitto stipulati in un periodo precedente all'inizio della crisi. Le aule dei tribunali si sono così intasate di cause per morosità. A questo processo di impoverimento generalizzato e di omogeneizzazione verso il basso delle condizioni di vita si sono accompagnati drammi, gesti disperati e numerosi suicidi, soluzioni individuali a problemi sociali collettivi.

Per avere un'idea dell'ampiezza del fenomeno, basti pensare che prima dell'inizio della crisi, nel 2007, le richieste di sfratto erano state 43mila, per passare a 68mila nel 2012. Nello stesso arco temporale gli sfratti effettivamente eseguiti sono aumentati da 22mila a 27mila. La tensione abitativa è tendenzialmente concentrata nelle regioni del Centro-Nord: nella sola Lombardia, dove vive il 16% della popolazione italiana e dove viene prodotto il 20% del PIL, si concentra il 33% delle richieste di sfratto d'Italia: 25mila su 77mila. Il fenomeno, in questa regione, è strettamente connesso con l'andamento della disoccupazione, passata dal 3,4% del 2007 al 7,9% del 2012, un arco di tempo durante il quale gli sfratti sono parallelamente raddoppiati.

Le strutture organizzate del movimento antagonista presenti nei quartieri e nelle città si sono calate in questo contesto, aprendo sportelli per il diritto alla casa, costituendo con gli abitanti sotto sfratto o senza casa dei comitati per il diritto all'abitare, contrastando il fenomeno con una molteplicità di strumenti. Da anni, ormai, non passa giorno in cui non si assistita, dal piccolo paese di provincia al quartiere della metropoli, a picchetti antisfratto, con cui i comitati impediscono materialmente all'ufficiale giudiziario, accompagnato dalla forza pubblica, di eseguire lo sfratto coatto. Nelle città in cui vengono praticate forme di resistenza agli sfratti si è assistito a un calo del numero di sfratti eseguiti, come ad esempio a Milano e a Torino.

Il ritmo dello scontro di classe è scandito dalle occupazioni di appartamenti e palazzi, pubblici o privati che siano, che si susseguono, noncuranti degli eventuali sgomberi polizieschi che, spesso, interrompono il processo di riappropriazione della ricchezza sociale. Le istituzioni, dagli assessorati comunali alla casa fino ai ministeri, passando per le regioni, vengono contestate sistematicamente dal movimento con interruzioni delle normali attività politiche e amministrative, con occupazioni degli uffici, con tendopoli di senza casa, allestite in stile movimento spagnolo degli indignados, sotto i palazzi del potere.

La crescita del movimento per il diritto all'abitare si è poggiata su solide basi, su un tessuto di realtà già operative nei territori: i coordinamenti per il diritto alla casa attivi storicamente, le associazioni di migranti che negli scorsi anni avevano condotto le lotte per le regolarizzazioni e contro le politiche razziste delle leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini, i collettivi studenteschi che hanno animato il ciclo di movimento contro i tagli governativi alla scuola e contro la riforma Gelmini dell'università, i centri sociali di quartiere, il sindacalismo di base. Solo guardando al portato delle lotte pregresse è possibile comprendere i passaggi politici intrapresi dalla nuova composizione di classe eterogenea e meticcia. A Roma italiani e migranti di comunità diverse tra loro lottano insieme nelle giornate di riappropriazione, che avvengono ormai ciclicamente più volte l'anno, occupando contemporaneamente una decina di palazzi in un solo giorno. La capitale è sicuramente la punta avanzata del movimento per il diritto alla casa, sede di numerosissime occupazioni abitative che danno un tetto a migliaia di persone. Significative sono le lotte di migranti e richiedenti asilo: questi ultimi a Torino, da un anno, occupano quattro palazzi del villaggio costruito in occasione dei giochi olimpici del 2006, lasciati in stato di abbandono in attesa che banche e società immobiliari speculassero sulla loro riconversione ad aree residenziali. Le centinaia di occupanti hanno anche costruito una mobilitazione per ottenere i documenti di residenza, costringendo il comune di Torino a capitolare. Al loro fianco ci sono anche gli studenti universitari, impossibilitati dai tagli alle borse di studio ad accedere a posti letto ai prezzi di mercato. A partire dal ciclo di lotte studentesche no Gelmini del 2010, da Torino a Palermo, da Bologna a Roma, sono stati occupati numerosi locali universitari sfitti, trasformati in studentati occupati autogestiti capaci di diventare luoghi di elaborazione politica non solo per gli universitari ma anche per giovani precari. Parallelamente a quella abitativa, le occupazioni svolgono anche altre funzioni essenziali: ospitano scuole di italiano per stranieri, aule studio per universitari, sportelli per il diritto alla casa, ambulatori medici popolari, mense autogestite, comitati e centri di aggregazione di quartiere, palestre sportive.

La lotta per il diritto all'abitare rappresenta dunque un potente strumento di ricomposizione di classe, capace di coagulare attorno a sé le varie declinazioni assunte dalle migliaia di resistenze quotidiane alle politiche di austerità. In tal senso, il percorso avviato nella scorsa estate dalla rete nazionale per il diritto alla casa “abitare nella crisi”, dai comitati contro le devastazioni territoriali e dal sindacalismo conflittuale, ha permesso la costruzione di una mobilitazione comune, passata attraverso il corteo nazionale del 19 ottobre, culminato con l'assedio-tendopoli ai ministeri dell'economia e delle infrastrutture. Il rifiuto della spending review e del fiscal compact, imposti dalla troika, si accompagna al no allo spreco di denaro pubblico attraverso il saccheggio dell'ambiente (TAV, Muos, Expo 2015).

Ribaltare l'austerità con “una sola grande opera, casa, reddito e dignità per tutti”: queste le parole d'ordine scandite dalla sollevazione romana di ottobre.

La manifestazione non è stata certo un fulmine a ciel sereno, ma una scommessa politica fatta dalle reti di movimento organizzate, frutto di una militanza costante, metodica e talvolta sfibrante.

Questi sforzi hanno permesso a quei frammentati segmenti di classe in lotta, che in modo sotterraneo si sono opposti all'austerità negli ultimi anni, di riemergere, ricomponendosi, in uno spazio politico autonomo, attorno al movimento per il diritto alla casa.

Si è detto che l'assedio del 19 ottobre è stato una scommessa, una scommessa almeno parzialmente vinta, parrebbe oggi, dato che la sollevazione si è poi radicata nei territori, permettendo di produrre scadenze comuni e coordinate di lotta in inverno, con una settimana di mobilitazione nazionale sui territori tra il 15 e il 22 gennaio: picchetti antisfratto in tutta Italia; cinque cortei con blocchi del traffico a Roma, contro la privatizzazione del trasporto pubblico, in concomitanza con lo sciopero degli autoferrotramvieri; blocchi dei facchini ai cancelli dei magazzini della Granarolo a Bologna; occupazioni delle sedi delle multiutility a Milano, Brescia, Torino e Cremona, per ottenere il blocco dei distacchi dalle utenze per i morosi; un picchetto a Pisa alle casse di un supermercato per la rivendicazione di buoni spesa; nuove occupazioni abitative Torino, Milano, Genova, Firenze, Roma, Napoli; un'occupazione sociale nell'Agro Caleno.

Gli innumerevoli conflitti disseminati nelle valli montane, nelle periferie urbane, nei poli logistici, sorti come funghi attorno agli snodi infrastrutturali, nelle fabbriche in via di delocalizzazione sono espressione di una nuova composizione di classe che sta conducendo una guerra di posizione di lunga durata, evitando battaglie campali, scartando scorciatoie politiciste ed endorsement ad autoproclamatesi rappresentanze delle lotte, affrontando i morsi della crisi nella loro più viva materialità di quotidiano scontro per la riproduzione di classe e non rifugiandosi dietro campagne di opinione. Il movimento ha saputo urlare il suo rifiuto netto di ogni mediazione istituzionale e la sua insofferenza verso un ceto politico gestore della miseria.

Un urlo che, partendo dai piccoli paesi della Valsusa, madre di tutte le lotte presenti sul territorio nazionale, si è esteso alle articolate e composite realtà metropolitane, ed è riecheggiato fino sotto ai palazzi del potere di Roma, fondendosi in un unico e perentorio grido: “que se vayan todos!”, perché nessuno intende più accontentarsi delle briciole caritatevolmente elargite dalle tavole lussuosamente imbandite di un ceto politico sempre più screditato agli occhi dei cittadini e sempre meno credibile. In tal senso, reddito, oggi, per il movimento non significa richiesta dell'erogazione monetaria di un basic income; piuttosto, esso rappresenta la misura dell'autonomia dei bisogni, la quota di ricchezza sociale, beni e servizi, che può essere strappata e sottratta al capitale attraverso la riappropriazione diretta da parte di settori di classe via via crescenti a mano a mano che la linea dello scontro si estende e riproduce, guadagnando alla lotta nuovi segmenti di ceto medio proletarizzato dalle politiche di austerità.

Rispetto alle possibilità di allargamento del fronte antagonista, risultano interessanti due esperienze, senza dubbio parziali. La prima riguarda, limitatamente al caso di Torino, la mobilitazione del 9 dicembre. Inizialmente convocata dal cosiddetto “movimento dei forconi”, ha ben presto travalicato i confini delle piccole organizzazioni che hanno indetto le prime manifestazioni, proseguendo autonomamente in forme radicali, con blocchi stradali e scontri con la polizia. Alcuni dei settori sociali coinvolti nella protesta (mercatari, piccoli commercianti di quartiere, giovani proletari delle periferie) sono tra quelli maggiormente colpiti dalla crisi e in questa occasione hanno riversato nelle strade della metropoli piemontese la loro rabbia, dando prova di un'elevata disponibilità alla lotta. L'interesse per queste proteste dimostrato da una parte dell'antagonismo torinese ha permesso all'intero movimento di confrontarsi in un dibattito sull'opportunità di intercettare anche quelle sacche di malcontento non diretta espressione dal movimento.

Il secondo dato potenzialmente significativo è la progressiva metamorfosi degli sportelli per il diritto alla casa, che stanno ultimamente allargando il raggio di interesse dalla questione abitativa alla questione delle utenze. Si tratta di un processo in parte naturale, dato il fatto che numerose famiglie sotto sfratto si trovano spesso a non poter far fronte, oltre alle spese per l'affitto, anche al pagamento delle bollette di luce, acqua e gas. Siamo anche di fronte a un significativo passaggio politico: attraverso le vertenze aperte nelle varie città da blitz, presidi e occupazioni degli uffici delle compagnie multiutility gestrici delle utenze si sta allargando il fronte della lotta a nuovi soggetti; si sta contestando la privatizzazione dei bisogni conseguente dalla svendita delle compagnie municipalizzate; si sta denunciando la devastazione territoriale perpetrata dagli inceneritori di proprietà di queste compagnie; si sta cercando di erodere gli utili di queste SpA con l'imposizione di moratorie dei distacchi delle utenze, di tariffe sociali, di erogazioni gratuite di standard minimi vitali.

La trasformazione degli sportelli abitativi in veri e propri sportelli sociali va anche nel senso di proseguire l'abbozzo di ricomposizione avviato con l'incontro nella piazza romana del 19 ottobre di quei segmenti che nei vari territori si oppongono con motivazioni e modalità differenti alle politiche di austerità. Un elemento che sicuramente contribuisce all'approfondimento di questo discorso è rappresentato dal fatto che spesso a rivolgersi agli sportelli per il diritto alla casa sono lavoratori i cui miseri salari impediscono di pagare affitti e bollette. Pulitori degli appalti, braccianti agricoli, facchini della logistica, per fare alcuni esempi, tutti cosiddetti working poors, che non si stanno limitando a difendere le proprie case dagli sfratti, ma che si stanno anche autorganizzando nei luoghi di lavoro. Un esperimento di interconnessione di queste lotte sociali e lavorative si sta dando laddove gli sportelli diventano un punto di incontro per vertenze diverse. Ad esempio, Social Log, spazio recentemente occupato a Bologna, nasce con l'intento di raccordare i vari soggetti in lotta nella città emiliana, centro nevralgico delle ultime mobilitazioni degli operai della logistica. Il collegamento tra lotte sociali e le lotte operaie resta tuttavia ancora da costruirsi, specialmente in quelle zone del Centro-Nord in cui il ritmo degli sfratti è l'eco di chiusure di fabbriche e licenziamenti lasciati passare senza colpo ferire dai sindacati confederali.

Il ruolo degli sportelli sociali è al centro della riflessione dei militanti di tutta Italia, specialmente dopo la mobilitazione del 19 ottobre. Sono stati proprio gli sportelli, fino ad ora, a rappresentare lo spazio politico di incontro tra militanti e soggetti sociali, lo strumento attraverso il quale si è resa possibile la partecipazione attiva e solidale degli sfrattati alle attività dei comitati per il diritto alla casa. L'intensa attività imposta al movimento dall'enorme numero di sfratti e dalle risposte repressive degli organi dello stato alle occupazioni va di pari passo con un processo di soggettivazione antagonista che passa dai percorsi di lotta: le assemblee, i picchetti, la vita quotidiana nelle case occupate, i cortei, lo scontro con la polizia sono tutti momenti nei quali emerge il protagonismo dei senza casa, migranti e italiani. Senza questo protagonismo, verosimilmente, i comitati per il diritto alla casa si sarebbero sfibrati disperdendo le proprie energie militanti in un mero servizio assistenzialistico, risultando alla fine incapaci di affrontare l'impressionante mole di attività politica richiesta dall'acuirsi dell'emergenza abitativa.

Il percorso lungo il quale i movimenti si stanno addentrando nella giungla della crisi in corso non è che all'inizio, ma il lento lavoro di scavo svolto da migliaia di talpe in ogni città d'Italia lascia ben sperare. Sicuramente, la controparte inizia a temere i risultati che possono essere raggiunti nei prossimi mesi: come già si è visto con il movimento no TAV della Valsusa, più dei contentini con i quali cercare di zittire il dissenso, viene impiegata l'arma della repressione. In tal senso vanno i provvedimenti giudiziari predisposti dalla magistratura verso 17 militanti e occupanti di case romani, colpiti da restrizioni della libertà per gli scontri avvenuti con la polizia in occasione del vertice stato-regioni del 31 ottobre, contestato dal movimento per l'abitare con un partecipato assedio. La repressione tuttavia non fermerà il movimento, che ha già risposto scendendo in piazza due volte, il 22 febbraio e il 15 marzo, e lanciando nuove mobilitazioni per la primavera incombente. Un corteo nazionale contro l'austerità imposta dalla troika si terrà a Roma il 12 aprile. Al centro dell'attenzione sarà la questione giovanile, visto il tasso di disoccupazione tra gli under-24 al 40% e il vertice europeo sul tema che si terrà a luglio, durante la presidenza italiana del Consiglio dell'Unione Europea, con il nuovo governo Renzi. Ma l'opposizione a Renzi passerà soprattutto dal rifiuto del pacchetto composto da “piano casa”, che prevede all'articolo 5 il divieto retroattivo di allaccio alle utenze negli stabili occupati, ossia un attacco diretto al movimento per l'abitare, e “jobs act”, la proposta governativa su mercato del lavoro e ammortizzatori sociali, che si ispira alla riforma Hartz IV tedesca.

 
 
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