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aggiornato: 05-12-2014           wildcat.zirkular.thekla.materiali.italiano

Wildcat 97, inverno 2014

Crisi del lavoro autonomo in Italia

Tre giorni di rivolta a Torino

La discussione intorno alla »rivolta dei Forconi« ha prodotto risultati interessanti ma ha anche mostrato tutti i limiti dell'ideologia nel giudicare movimenti reali. Quello che è mancato è stato un metodo di indagine sui fatti effettivi e sulle forze sociali profonde che sono entrate in campo. Così troppi interventi non hanno differenziato tra l'elemento sociale e l'elemento politico entrati in gioco nei giorni di eventi che, nella sola Torino, hanno preso la caratteristica di una vera e proprio rivolta. Sul livello nazionale la mobilitazione è sostanzialmente fallita; avrebbe dovuto coinvolgere autotrasportatori, contadini e produttori alimentari soprattutto, ma non solo, del Centro Sud e categorie appartenenti al lavoro autonomo diffuso, alle media e piccola imprenditoria, al popolo delle partite IVA. Ma al di fuori di Torino abbiamo solo qualche blocco di camionisti e qualche manifestazione popolata soprattutto da membri dell'Estrema Destra.

A Torino, invece, la mobilitazione riesce ed ha dimensioni di massa. Il lunedì della rivolta il Palazzo della Regione è assaltato da circa tremila persone il cui gruppo d'attacco è costituito dal popolo delle curve delle periferie organizzato dietro l'attenta regia dei gruppi ultras di Torino e Juventus. Gruppi efficaci nel tenere la piazza e mettere in crisi l'apparato di controllo e di repressione che, peraltro, mostra di muoversi di malavoglia nella repressione di un mondo che non solo non disprezza ma che riconosce simile a sé, antropologicamente prima ancora che politicamente. Hanno in fondo la medesima origine sociale.

Il metodo di indagine effettivamente efficace non può che essere costruito a partire da un'analisi fredda che provi a isolare i singoli caratteri del fenomeno e che provi a capire su quali sia possibile (sempre che sia possibile) intervenire.

D'improvviso dopo anni di dibattiti su soggettività eteree o campate in aria, come i cosiddetti »cognitari«, la politica come espressione sociale torna a popolarsi di carne, sangue e merda.

In realtà c'erano delle organizzazioni che preparano il 9 dicembre. Organizzazioni tra il politico ed il para-sindacale con una chiara connotazione a destra. I »forconi« in realtà è il fronte moderato della protesta, sono quelli che tengono molto basso il livello dello scontro. Sono un pezzo di destra italiana chi voleva utilizzare il 9 dicembre per farsi partito, per autorappresentarsi politicamente. Hanno un grosso seguito tra gli autotrasportatori, chi in Italia sono praticamente già dagli anni 70 tutti lavoratori autonomi.1 Al 9 dicembre però partecipano in pochi, perché il governo fa una cosa molto intelligente: pochi giorni prima arriva ad un accordo con molte delle sigle sindacali dei padroncini, anche se non con i forconi, per cui i camionisti ottengono l'abbassamento delle tasse sul gasolio. E questo depotenzia moltissimo il 9 dicembre. I camionisti si limitano a qualche blocco in giro per l'Italia quasi senza conseguenze. Senza andare lontano da Torino, a Pinerolo abbiamo un blocco stradale operato da un sindacato fascista degli autotrasportatori che deve la sua relativa riuscita alla tolleranza – quando non alla complicità – delle forze di polizia.

L'altra iniziativa di depotenziamento della tensione da parte del governo sono le misure in favore dei piccoli coltivatori. Anche loro erano in mobilitazione soprattutto contro i prodotti che entrano in Italia come il prosciutto della republicca czeca o il formaggio dalla Bulgaria che hanno nomi simili a quelli italiani. Nei giorni precedenti il 9 Dicembre la Coldiretti (Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti) blocca simbolicamente il Brennero e il governo annuncia una serie di provvedimenti a difesa del Made in Italy. La Coldiretti se ne va.

A Torino invece la potenza simbolica del 9 Dicembre si fa carne e sangue, e saltano fuori tre giorni di grande mobilitazione.

»Una faccia - una razza«

A Torino la dimensione sociale del 9 Dicembre è data dal popolo dei mercatari, piccoli proprietari di una attività commerciale. I mercatari hanno a Torino dimensioni e radicamento straordinari, senza pari non solo nel paese, ma anche in Europa: trentasette mercati rionali e la vera e propria Mirafiori dei mercati, Porta Palazzo, con più di tremila addetti diretti e un indotto difficilmente quantificabile. Nella zona di Torino e nei comuni vicini fanno quasi cento mercati rionali, tutti giorni.

In alcuni mercati ci sono anche contadini chi vengono a vendere i loro prodotti, però al massimo sono 10, 15 percento, se va bene. Il resto sono perlopiù ex-lavoratori espulsi dal processo produttivo alla fine degli anni 70, ex-operai ed i loro figli e nipoti. Con l'incentivo del licenziamento si sono comprati la licenza per vendere al mercato. Però non ti basta la licenza, devi anche comprarti il posto fisso, e questo riesci a farlo soltanto dopo alcuni anni.

Essi comprano la merce dalle strutture più grosse. Vanno col furgone a comprare dai grandi rivenditori e poi vendono sul mercato. Chi ha fatto questa scelta non ha un lavoro facile, deve alzarsi ogni giorno quando fa ancora buio; non è una vita semplice e in più devi investire una somma di denaro.

Il reddito viene accumulato anche grazie all'evasione fiscale. In realtà è un pezzo di società chi ha sempre pagato circa il 30% delle tasse che doveva pagare. Un'evasione fiscale diffusa e tollerata.

Ovviamente i lavoratori che i mercatari impiegano tra i banchi tradizionalmente sono sempre stati tutti in nero. Spesso con rapporti lavorativi giorno per giorno; in questo mondo è possibile lavorare per anni senza mai vedere una busta paga, ed essere pagato cash a fine giornata. Tutto sommato questi lavoratori hanno sempre accettato di essere pagati in nero. Sia perché i soldi non erano tanto pochi, sia perché la prospettiva vera di uno chi comincia a lavorare con un mercataro era quella di arrivare a prendere il suo posto. Se il figlio del mercataro non vuole fare il lavoro, invece di vendere la licenza si mette d'accordo con il lavoratore, vendendogli la licenza a rate. In questo modo il mercataro si garantisce una sorta di pensione integrativa.

Questo sistema in qualche modo è stato il tipico compromesso sociale italiano negli anni 80 e 90 ed ha funzionato fino adesso. Moltissimi proletari sono diventati lavoratori autonomi, soprattutto gli immigrati degli anni 70 che poco a poco verranno sostituiti dagli immigrati degli anni 90. Moltissimi di questi proprietari sono stranieri che hanno iniziato negli anni 90 a lavorare nei mercati ed adesso stanno pagando la licenza; sono lavoratori stranieri che hanno accettato il prezzo da pagare per ottenere un lavoro indipendente, hanno lavorato in nero per anni, hanno sopportato spesso i maltrattamenti dei titolari del banco, con un preciso scopo: ottenere una posizione da lavoratore autonomo che risponde anche ad una concezione del lavoro tipica delle aree geografiche di provenienza di queste persone. I mercatari stranieri sono quasi tutti maghrebini senza esperienza di lavoro salariato alle spalle o rumeni provenienti dalle aree rurali del paese. Per loro stare al mercato è più naturale che impiegarsi sotto padrone in una fabbrica.

Nel frattempo sono successe tre fatti che mandano questo mondo in crisi:

Il primo riguarda la crisi che i comuni subiscono a causa del governo Berlusconi che tagliava i trasferimenti dallo stato centrale agli enti locali, la conseguenza è che vengono spinti a cercare soldi dai cittadini. La prima conseguenza è l'avvio di una fase di rastrellamento delle tasse dei mercatari. In particolare a Torino lo scontro si apre sulla tassa sui rifiuti. Oltre che ai cittadini la tassa viene anche fatto pagare alle attività economiche comprese quelle di chi ha un banco al mercato. Mercatari che non avevano mai pagato questa tassa si trovano a dover pagare anche gli arretrati degli ultimi cinque anni. Avendo solo 60 giorni per pagare prima del raddoppio della somma, si trovano ad essere obiettivamente strangolati. Alcuni piccoli proprietari si sono addirittura suicidati.

Sul rifiuto del pagamento della tassa rifiuti riescono per due anni a mobilitarsi, occupano le stazioni, si scontrano con la polizia.

Su questo punto ottengono una significativa vittoria il 9 dicembre. Il comune di Torino aveva già costituito Soris, una sua agenzia di recupero crediti ed era uscito dal sistema Equitalia. In questo modo i mercatari torinesi possono contrattare direttamente col comune. Non si parla molto di questo ma uno dei risultati sindacalmente assolutamente significativi che hanno raggiunto il 9 Dicembre è la rateizzazione fino a 48 mesi del pagamento degli arretrati della tassa rifiuti.

Il secondo fatto è la direttiva Bolkenstein che tra altre cose liberalizza il commercio al minuto. Un mercataro può trovarsi con la licenza pagata parecchie migliaia di euro che adesso non vale più niente. La direttiva Bolkenstein dà la possibilità al grande capitale, alla grande distribuzione di comprarsi posti al mercato. Già adesso in certi mercati di Torino ci sono banchi gestiti dalle aziende della distribuzione. La grande paura dalla Bolkenstein è assolutamente sensata ed ha una base reale.

Il terzo fatto è lo sviluppo della grande distribuzione. In Italia assistiamo da vent'anni a uno sviluppo incredibile di ipermercati, di grandi centri commerciali ecc., assolutamente superiore alla necessità. Questi centri commerciali rispondono più alla necessità della malavita organizzata di riciclare capitali freschi che non ad altro. (zahlen kaum Steuern, kriegen alle Infrastrukturmaßnahmen bezahlt, stellen nur befristet ein, schließen und neu-eröffnen kontinuierlich) Questi ipermercati tendono a sottrarre clientele ai mercati. Anche se a Torino questi ipermercati hanno perso la guerra contro i mercati sugli ortaggi (perché i mercati hanno una qualità migliore), nel resto d'Italia hanno vinto.

La rivolta dei tre giorni


Dal 2011 assistiamo a continue mobilitazioni contro la Bolkenstein. Da tre, quattro anni esiste un coordinamento effettivo di piccoli proprietari che lavora a costruire una posizione rispetto alle politiche del loro settore. E questo è lo stesso coordinamento che si presenta in piazza il 9 dicembre. Sono soprattutto loro, più conoscenti, amici, parenti... Entra in campo un mondo molto composito che però ruota attorno a questa figura.

Il primo giorno ci sono poi gli ultras delle due squadre cittadine e gruppi politicizzati di destra, ma che non sono capaci di fare egemonia. Gli ultras sono i figli se non dei mercatari stessi degli amici di quartiere, è la stessa gente. Questo composito »mondo popolare« si unisce attorno a uno scontento verso il governo. Soprattutto contro la ricaduta della politica di austerità. Quel giorno ci sono gli ultras e allora scoppia anche il casino – mentre i carabinieri per i tre giorni tengono un profilo bassissimo, molto molto tranquilli, quasi solidali.

Episodio significativo quello in cui i poliziotti si tolgono il casco nonostante sia appena terminata una fase convulsa di cariche e controcariche tra la forza pubblica e gli ultras attirati dalla mobilitazione.

Il gruppo dirigente dei piccoli proprietari del mercato dopo questo momento di scontro mette ai margini gli ultras, non ha nessuna intenzione di ribaltare la città e lancia i ragazzi all'occupazione dei principali nodi per bloccare il traffico di tutta la città.

Anche in questo caso vengono assolutamente tollerati. Mi ricordo di aver visto il giorno dopo agli scontri due blocchi stradali messi in atto di non più di sette, otto persone. Sarebbe bastata una volante della polizia per sgomberarli, ma erano tollerati e permessi. Effettivamente la Polizia permette azioni che non avrebbe tollerato da parte dei lavoratori salariati. Alcuni Ipermercati vengono chiusi da squadre di circa venti persone nemmeno armate. E' evidente che il governo e la forza pubblica vogliono che la mobilitazione si sgonfi da sola.

A quel punto entrano in campo tutta una serie di tentativi di costruzione politica messi in pratica da forze di destra. I Forconi ufficiali a Torino non partecipano, in realtà abbiamo un 9 dicembre dei forconi senza Forconi. I Forconi ci sono in Sicilia, nel Veneto, in Puglia, nel Lazio, ma a Torino non ci sono; anche perché non ci sono gli autotrasportatori, né la piccola proprietà contadina.

A Torino c'è un coordinamento vicino a questo personaggio incredibile con la Jaguar, chi ha cercato calvacare Torino ma non è riuscito a fare un granché. Però ha dei suoi uomini anche a Torino; qualcuno lancia il programma »abbattimento immediato del governo, sostituzione del governo con un governo di unità nazionale, guidato dai militari, meglio ancora dai carabinieri«. La piazza invece era »contro il governo che tassa la gente«.

Da un punto di vista politico questa mobilitazione è prevalentemente orientata a destra, una destra di tipo popolare. In questo senso è significativo quello che succede il secondo giorno: ci sono ancora alcune migliaia di persone in Piazza Castello grazie ai cortei degli studenti delle scuole tecniche e professionali. Non si presentano gli studenti dei licei che di solito sono quelli che si mobilitano. Si muovono gli studenti di estrazione proletaria, anche qui i »vicini di casa« dei mercatari.

Il secondo giorno si muove da quella piazza un corteo che incrocia un presidio di operai della FIOM chi erano in presidio sotto la sede delle Regione per una questione di cassa integrazione. Questi vengono contestati in modo durissimo da parte del corteo dei forconi torinesi. Non in quanto sia una manifestazione di sinistra ma in quanto le bandiere sono rosse, non sono le bandiere italiane. Partono soprattutto i più giovani »tira via questa bandiera! Ci devono essere soltanto bandiere italiane! Siamo tutti italiani« Questa tipica espressione di destra che chiede che il popolo sia unito dietro un'espressione nazionale viene fatta propria da tutto il corteo.

Allo stesso tempo sempre in quei giorni viene fuori il carattere popolare della mobilitazione quando il corteo spontaneo di giovani forconi parte da Piazza Castello ed entra in Via Garibaldi, una via centrale di Torino, pedonale, con negozi per lo più di abbigliamento. Chi viene dalla periferia in questa via ha l'impressione di trovarsi nella via bene, quella dei ricchi. Molti di questi negozi erano rimasti aperti. Il corteo allora chiedeva alle commesse di chiudere.

In questi due episodi si legge la cultura politica di questo movimento: sicuramente di destra per i suoi simboli, la bandiera, il popolo... altrettanto sicuramente popolare per l'opposizione della propria realtà (il mercato, la periferia...) alla realtà del mondo borghese.

Intervento dell'Autonomia torinese

Poi c'è il tentativo dell'Autonomia Torinese di intervenire. Sulla piazza vera e propria loro non combinano assolutamente niente. Un discorso classista lì non aveva nessuna possibilità di sfondare. Anche perché è una piazza che ha una connotazione popolare e di destra, gli autonomi sono visti come borghesi e di sinistra.

Sul grosso della piazza gli autonomi cercano di fare un'operazione che non funziona per niente. Mercoledì sera la leadership autoconvocata dei mercatari chiude la mobilitazione anche perchè siamo sotto Natale e troppi padroncini vogliono riaprire i banchi per approfittare delle feste. Gli autonomi che chiamano alla continuazione della mobilitazione non vengono nemmeno ascoltati.

Riescono su certi versi di intervenire sui ragazzi. Anche perché dal terzo giorno la piazza è sempre più la piazza degli studenti. Erano parecchi e fanno ancora giovedì e venerdì, anche perché mentre per un padroncino del mercato scioperare 5 giorni costa, per gli studenti è più farsi la settimana lunga di festa. Ed i compagni riescono ad animare le manifestazioni degli studenti e tenerli fuori dall'influenza dei piccoli gruppi di estrema destra. In questo senso svolgono un ruolo estremamente positivo.

Il lavoro autonomo in movimento?

Quello che si è messo in movimento a Torino è il lavoro autonomo di prima generazione, lavoro autonomo più antico, non una nuova composizione.2 Un soggetto prodotto da trent'anni di deindustrializzazione torinese con la ricollocazione nel lavoro commerciale di migliaia di proletari espulsi dal ciclo produttivo e oggi morso da una crisi prodotta dalle necessità fiscali di Stato, Comuni e Regioni che stanno facendo a gara a torchiare fiscalmente settori commerciali che hanno prosperato grazie alla concomitanza di evasione tollerata e lavoro nero sostanzialmente legalizzato.

Un mestiere antico quanto il mondo (ben più della prostituzione) assume quindi i connotati del soggetto in movimento impegnato a difendere gli spazi di relativo benessere conquistati in questi anni. È un popolo ancora lontano dall'immiserimento reale ma che inizia a vedere con terrore il baratro della miseria. Ed è un popolo che non a caso individua nel ceto politico, nella »casta« il proprio nemico.

Il ceto politico ha permesso la crescita del mondo dei mercatari con le politiche di lassismo fiscale e di mancanza di controlli. In questo modo si è garantito una quota considerevole di consenso clientelare. Per questo la »casta« è sotto accusa: ha tradito un mondo coccolato fino a ieri, ha retto il patto che la legava alle proprie clientele.

I »Traditi«, ovviamente, oggi presentano il conto e mobilitano attorno a loro un mondo sfaccettato fatto di disoccupati e sottoccupati delle periferie, diplomati precari spesso figli degli stessi esponenti del mondo della micro imprenditoria periferica e marginale, studenti degli istituti tecnici e delle scuole professionali. Insomma un mondo unificato dalla frustrazione, dall'impressione di essere stati traditi, ma unificato anche dall'appartenenza allo stesso spazio metropolitano, alle stesse periferie, agli stessi bar.

E il programma che agitano, le speranze che li animano sono quelle di un ritorno all'età dell'oro continuata fino a pochi anni fa. Chiedono che la festa continui, che le politiche di lassismo fiscale, contributivo e regolamentativo non finiscano, che il denaro facile torni a fluire. Correttamente individuano in un'Europa che ha retrocesso l'Italia, nelle banche dal credito stitico e nella »casta« che garantisce gli interessi dell'imprenditore forte e dei grandi gruppi il nemico immediato, i cui eccessi, le ruberie, l'immonda tendenza all'arricchimento facile sono sotto gli occhi di tutti.

Sono in grado di riconoscere il nemico ma non riescono ad agitare altro che un'utopia reazionaria, un ritorno al passato immediato, non realizzabile proprio perchè sono venuti meno i margini che permettevano a un ceto politico clientelare e scorreggione di vellicare le sue clientele, di mangiare e di far mangiare senza suscitare reazioni di sorta nelle èlite europee, in quella classe dirigente complessiva continentale che oggi necessita di molta liquidità per affrontare un mondo dove le potenze sovrastatali necessitano di liquidità e stabilità finanziaria per affrontare le sfide globali.

In Italia le classi proprietarie non sono disponibili a partecipare allo sforzo in questo senso e la vicenda dell'ex IMU3 è sintomatica in questo senso. D'altra parte il lavoro salariato è stato colpito pesantemente in questi anni, ma il suo sacrificio non basta e, quindi, anche il lavoro autonomo più povero e straccione viene chiamato a essere compresso nei propri redditi e nelle proprie possibilità di consumo.


Riepilogo

A Torino c' è stata un'effettiva insorgenza sociale – ambigua, confusa, con forti caratteri politicamente di destra... - però un momento di effervescenza vera. C'è tutto un mondo popolare – studenti delle scuole di periferia, gli ultras, disoccupati, sottoccupati, gente con lavori saltuari... »la gente da bar«, che si è mobilitata sul solco della lotta dei mercatari per abbattere il governo e sfogare il proprio scontento.

Si tratta di un ceto popolare non diverso nella composizione familiare da quello delle barriere operaie degli anni Cinquanta: spesso nella stessa famiglia ci sono un mercataro (o una mercatara, più spesso), un operaio magari inj cassa integrazione e dei figli studenti o disoccupati , oppure lavoratori in nero presso qualche piccolissima impresa. Quello che è diverso è il clima culturale interno che porta queste persone inevitabilmente a destra: non è più l'operaio o il disoccupato ad essere egemone con il proprio discorso all'interno della famiglia, lo è il mercataro o la mercatara con la sua visione del mondo molto più semplice e insieme apparentemente più valida e capace di individuare il nemico.

Questi tre giorni segnalano una crisi importante nel senso che il governo ed il capitale non possono più utilizzare quel mondo come ammortizzatore in caso di licenziamenti e come serbatoio di clientela politica. Nell'immediato questo processo porta una parte notevole di questo mondo su posizioni di destra popolare ed in tendenza anche fascista.

È in corso una proletarizzazione di questo mondo. I manifestanti del 9 Dicembre hanno colto l'essenziale della situazione attuale del paese: un impoverimento della società a favore dell'èlite proprietaria; anche ceti e settori sociali che non ne erano stati toccati fino ad adesso vengono colpiti e impoveriti. Torino non è soltanto particolare sul discorso del lavoro autonomo, ma è stata la capitale dei Forconi anche in quanto è la capitale dell'impoverimento nazionale. Le città del sud sono più povere ma si sono meno impoverite di Torino. Cascare da più in alto fa sempre più male.

È ridicolo l'atteggiamento della sinistra civilizzata, quella che conta e con la quale bisogna fare i conti che, dopo aver riempito il paese e, in particolare Torino, di bandiere tricolori negli ultimi anni – e in particolare nel 2011 – denuncia oggi il loro utilizzo da parte dei Forconi. Tra l'altro è evidente che il suo utilizzo è parallelo: la sinistra la pensava e la praticava come simbolo di un'unità nazionale contro i particolarismi locali, i Forconi e compagnia l'hanno rivendicata come forma unitaria - e totalitaria - del popolo senza distinzioni in rivolta contro le èlite politiche ladrone.

Questa crisi dell'assetto del lavoro autonomo più antico e più diffuso in Italia potrebbe aprire delle prospettive interessanti. Per la sinistra di classe esiste la possibilità di inserirsi dentro questo processo e cercare di spostare le posizioni della maggioranza nel senso di costruire un'opposizioone alla Direttiva Bolkenstein e al predominio della grande distribuzione che tenga insieme gli interessi del popolo dei mercati, quello dei salariati della grande distribuzione e quello delle classi salariate in generale che dalla trasformazione del commercio possono solo aspettarsi un netto peggioramento della stessa possibilità di nutrirsi decentemente. E' certo necessario un ribaltamento culturale dell'atteggiamento dei mercatari che continuano a privilegiare la contestazione alla tassazione da un punto di vista padronale, ma non è impossibile pensare di trovare un incontro proponendo una mobilitazione comune a salariati e mercatari contro le aperture domenicali degli Ipermercati o contro gli accessi privilegiati della grande distribuzione al consumo energetico.

Una strada è ipotizzabile, pur con tutte le difficoltà a comunicare tra soggetti divisi per decenni. Un primo tentativo potrebbe essere fatto su questo terreno con l'opposizione all'apertura di nuovi centri commerciali che, nonostante la crisi, vengono proposti in continuazione in tutte le città d'Italia. Si tratta di un tentativo che deve essere fatto e al cui termine potremmo provare a fare i conti sulle possibilità concrete di ricomposizione in avanti di classi popolari segmentate quali quelle che incontriamo ogni giorno nelle nostre città. Solo un tentativo concreto potrà darci dei dati maggiori in questo senso. Si tratta di provarci e di provarci sul serio. Hic Rhodus, hic salta.

Note:

[1] La trasformazione dei camionisti in lavoratori autonomi ha fatto di loro dei micro imprenditori, a volte con un certo numero di dipendenti. Le sigle sindacali di questi padroncini sono sostanzialmente delle piccole associazioni categoriali per lo più spostate a destra. Tra di loro anche la sigla Contras legata a Forza Nuova che usa simbologia e riferimenti esplicitamente fascisti. La costruzione dell'Unione Europea ha permesso in questi anni a molti piccoli imprenditori di abbassare il loro costo complessivo assumendo csamionisti stranieri (per lo più rumeni e bulgari) dal costo minore e disposti ad assumersi i rischi di turni di lavoro di oltre sedici ore senza pausa. In altre parole non solo guidano per quasi un'intera giornata, ma, se fermati dalla Polizia si impegnano a pagare la multa con una trattenuta sullo stipendio. Questa situazione, unita alla continua salita del prezzo dei carburanti è stata il brodo di coltura delle agitazionei del setore che hanno sempre mescolato rivendicazioni come quella della limitazione dell'afflusso di camionisti stranieri con quella (finora vincente) di diluizione delle accise dovute dalle imprese sul carburante.

[2] Sergio Bologna parlava da decenni di lavoro autonomo e sperava in una ricomposizione di questo settore. Sembra di aver cambiato idea anche lui, nel marzo del 2014 scriveva »dobbiamo alzare il tiro«

[3] Si tratta della tassa sulla proprietà della casa di abitazione, introdotta nel 1992 dal governo Amato, e che ha cambiato spesso il proprio nome. Venne abolita dal governo Berlusconi (che su questo impegno vinse le elezioni) nel 2008 ed è stata reintrodotta nel 2011 dal goveno Letta prima di essere trasformata dal gioveno Renzi in un atassa sui servizi pagata in modo diverso sia dai propietari che dagli affituari. In Italia è un nodo politico importante perchè circa il 74% dei nuclei familiari vive in una casa di propietà. Quindi, pur essendo una tassa di tipo patrimoniale non colpisce i ricchi ma più dei due terzi della popolazione.

 
 
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