Wildcat 98, Estate 2015
Il concetto di “classe” è nuovamente divenuto popolare. Dopo la più recente crisi economica globale, anche i giornali borghesi hanno cominciato a porsi la domanda: “Dopo tutto, forse che Marx non avesse ragione?”. “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty è stato nella lista dei bestseller degli ultimi due anni – un libro che descrive in modo dettagliato e puntuale come storicamente il processo capitalistico di accumulazione abbia sortito il risultato di una concentrazione di ricchezza nelle mani di una stretta minoranza di possessori di capitali. Per di più, nelle democrazie occidentali le notevoli diseguaglianze hanno provocato un accentuato timore di rivolte sociali. Negli ultimi anni, questo spettro ha ossessionato il mondo – dai disordini di Atene, Londra, Baltimora, fino alle rivolte in Nord Africa, a volte con la cancellazione di governi statali. Come di consueto, in questi tempi di agitazione, mentre una fazione dei detentori del potere invoca la repressione armata, l’altra solleva la “questione sociale”, che si suppone dovrebbe essere risolta attraverso riforme o politiche redistributive.
La crisi globale ha de-legittimato il capitalismo; la politica dei padroni e dei governi per costringere i lavoratori e i poveri a pagare per la crisi ha alimentato la rabbia e la disperazione. Chi potrebbe ancora contestare il fatto che noi viviamo in una “società classista”? Ma questo che cosa sta a significare?
Le “classi” nel senso più stretto del termine emergono solo con il capitalismo - ma l’appropriazione indebita dei mezzi di produzione, da cui deriva la condizione del proletariato privo di proprietà, non è stato un processo storico eccezionale. L’appropriazione indebita è un ripetersi quotidiano all’interno del processo produttivo: i lavoratori producono, ma il prodotto del loro lavoro non appartiene a loro. Essi si limitano a ottenere ciò di cui hanno bisogno per la riproduzione della loro forza lavoro, o ciò che serve per mantenere il loro tenore di vita che essi hanno conquistato attraverso le lotte.
In linea di principio, le società classiste non riconoscono alcun privilegio per diritto di nascita, piuttosto è la proprietà del denaro a determinare la specifica posizione nella società. Di massima il capitalismo rende possibile una carriera che può partire dall’essere un lavapiatti fino a diventare uno speculatore di borsa (o almeno un piccolo imprenditore, e questa è la speranza di molti migranti). Nel contempo, i membri della piccola borghesia o gli artigiani possono discendere la china, fino al rango di proletario. L’ascesa nella scala sociale è raramente il risultato del proprio lavoro, piuttosto dell’abilità di diventare un capitalista e di appropriarsi del lavoro altrui. (La mafia, tanto per dire, possiede queste abilità.)
In realtà, si impone un processo di polarizzazione di classe, che già Marx ed Engels avevano afferrato come forza esplosiva e presupposto rivoluzionario. “Il movimento proletario è il movimento indipendente dell’enorme maggioranza nell’interesse dell’enorme maggioranza” (Manifesto). Immanuel Wallerstein ha dichiarato la tesi di Marx sulla polarizzazione di classe essere la sua tesi più radicale, che - una volta correlata al sistema mondiale - ha dimostrato tutta la sua validità. Polarizzazione significa, da un lato, proletarizzazione, dall’altro imborghesimento.
Il capitale non è solo ricchezza accumulata nelle mani di pochi. Il capitale è la precondizione e il risultato del processo di produzione capitalistico, in cui il lavoro vivo crea valore, che viene fatto proprio da altri.
Per capitalismo non si deve intendere in genere lo ‘sfruttamento’ di un singolo lavoratore da parte di un maestro artigiano, ma lo sfruttamento di una grande massa di lavoratori in una fabbrica. È un modo di produzione basato sul fatto che milioni di persone lavorano insieme senza nemmeno conoscersi. Tutti insieme producono valore, però insieme possono anche rifiutare questo lavoro e mettere in discussione la divisione sociale del lavoro. Come forza lavoro, i lavoratori sono parte del capitale; come classe operaia, sono il più grande nemico del capitale al suo interno.
Generazioni di ricercatori sulle “attività scientifiche di gestione e di direzione” hanno tentato di espropriare la conoscenza dei lavoratori su come produrre, per diventare indipendenti da loro. Hanno stabilito unità di produzione in parallelo, in modo da essere in grado di continuare la produzione nel caso in cui i lavoratori entrino in sciopero. Hanno cessato le attività e trasferito le fabbriche al fine di essere in grado di aumentare lo sfruttamento e di assumere il controllo di nuovi gruppi di lavoratori. Ma non sono stati in grado di esorcizzare lo spettro (della rivolta sociale, n.d.t.). Durante le ondate di scioperi del 2010, per la prima volta questo fantasma ha ossessionato tutte le parti del globo, contemporaneamente. Queste lotte sono attualmente nella fase di cambiare questo mondo. Anche gli ambienti accademici hanno preso coscienza di ciò e dopo tanto tempo hanno trasformato nuovamente la classe operaia in oggetto delle loro ricerche – come dimostrano numerose pubblicazioni, nuove riviste e pagine web, attraverso le quali gli scienziati sociali di sinistra cercano di creare collegamenti tra i lavoratori in diversi continenti. In Germania, negli ultimi 25 anni, i lavoratori sono stati lasciati soli con le loro lotte – e però, ora, movimenti sociali e intellettuali hanno iniziato nuovamente a fare loro riferimento.
Fino al 1989, noi eravamo in grado di darci spiegazioni su ciò che stava accadendo in questo mondo, o meglio, le lotte di classe erano in grado di spiegarcelo a noi. Il risveglio rivoluzionario attorno al 1968 aveva prodotto una nuova ondata di lotte operaie in molti paesi, e aveva generato una critica globale al sistema di produzione e alla cultura del lavoro supportata dai sindacati nelle metropoli. Alla fine degli anni 1970 la classe operaia era al culmine della sua potenza. Salari e redditi venivano garantiti dalla contrattazione collettiva e permanente, e il posto di lavoro relativamente sicuro era ancora la norma. Nei paesi industrializzati, le condizioni materiali dei lavoratori nel quadro del loro salario sociale complessivo erano le migliori che mai prima nella storia. E le loro lotte all’interno dei settori industriali centrali imponevano le condizioni migliori per tutti.
Già durante la crisi del 1973-1974, la capacità produttiva della classe operaia aveva iniziato a essere compromessa attraverso la delocalizzazione delle produzioni di massa ad alta intensità lavorativa verso il Sud-Est asiatico e tramite la ristrutturazione all’interno delle fabbriche. Il Capitale agognava sbarazzarsi di lavoratori divenuti troppo combattivi e sicuri di sé. Il colpo di stato in Cile nel 1973 e l’ascesa dei “Chicago Boys” indicavano la direzione che avrebbe preso la contro-rivoluzione del 1979-1980, in seguito associata ai nomi della Thatcher e di Reagan, che sfociò in pesanti sconfitte di ciò che, fino a quel momento, aveva costituito i pilastri della classe operaia (sconfitta alla Fiat nel 1980; il colpo di stato militare in Turchia; la controrivoluzione in Iran del 1979-1981, dopo che i consigli operai erano stati smantellati; il regime militare in Polonia alla fine del 1981; la sconfitta dei minatori in Inghilterra nel 1985 ...). Attacchi diretti sotto forma di licenziamenti di massa, con conseguente segmentazione della forza lavoro. Le classi operaie a livello nazionale [nationale Arbeiterklassen] si barricarono dietro i loro luoghi di lavoro e per un considerevole periodo di tempo riuscirono - anche se con grandi differenze relativamente ai singoli paesi – a respingere gli attacchi diretti volti a deteriorare le loro condizioni.
Allora, per la gente dell’Europa occidentale, gli anni 1980 hanno costituito momenti densi di contraddizioni: da un lato attacchi massicci, d’altro canto l’azione di movimenti sociali radicali. Ma, dal punto di vista attuale, questo è stato un decennio di sconfitte drammatiche. Le politiche di austerità producevano uno smantellamento dei diritti sociali e/o questi venivano strettamente condizionati dalla spasmodica ricerca del lavoro. Immagini dagli Stati Uniti mostravano lunghe code di disoccupati davanti ad agenzie di reclutamento e collocamento, raffiguranti la nuova dimensione di impoverimento della classe operaia degli Stati Uniti - una classe operaia che da sempre si era dimostrata tanto potente. In Germania, durante la metà degli anni 1980, la mobilitazione sindacale per la riduzione dell’orario di lavoro (per combattere la disoccupazione!) in cambio di flessibilità e precarizzazione dei “regolari contratti di lavoro a tempo indeterminato” segnava uno spartiacque, un punto di svolta importante. Gli anni 1980 sono stati contraddistinti da dittature militari e declino economico in gran parte dell’America Latina, dalla bancarotta di Stato nel Messico, dalla crisi del debito e dalle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale FMI per far rispettare “programmi di aggiustamento strutturale”.
Dalla metà degli anni 1980, gli alti tassi di crescita economica dei quattro giovani “Stati-Tigre” asiatici, Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, capovolgevano i vecchi presupposti della “teoria della dipendenza”.
I movimenti di sciopero di massa del 1984 focalizzarono l’attenzione generale sulla Corea del Sud. Nelle condizioni dominanti di una dittatura dallo sviluppo di stampo occidentale, che aveva massacrato una rivolta operaia solo sette anni prima, era emersa una classe lavoratrice che sfidava il Capitale della Corea del Sud e i suoi metodi di produzione con forme radicali di lotta. Grazie a forti aumenti salariali, nel giro di pochi anni, i lavoratori erano stati in grado di mettersi alla pari con le loro controparti occidentali. Peraltro, in Europa, durante la fine degli anni 1980 una nuova composizione di classe sembrava svilupparsi nell’ambito di una nuova serie di lotte (il movimento delle assistenti sanitarie, scioperi negli asili nido, lotte dei macchinisti in Italia e Francia, scioperi dei camionisti in Francia, uno sciopero selvaggio alla VolksWagen ...) - ma poi era seguita una crisi e la guerra, e un massacro che avrebbe cambiato il mondo ...
Nel giugno del 1989 l’esercito apre il fuoco sulla piazza Tiananmen soprattutto perché masse di lavoratori erano accorse a sostegno degli studenti. Non agli studenti, ma ai leader dei lavoratori vennero inflitte lunghe pene detentive o la pena di morte. I sindacati non ufficiali vennero immediatamente dichiarati illegali e i loro dirigenti gettati in carcere.
Questo esempio non si è riprodotto a Berlino o a Lipsia (N.d.tr. Germania Est). Là, il regime si arrendeva. Quando il muro è caduto nel 1989, Wildcat si è avvicinato con ottimismo al crollo del socialismo reale esistente. Nel 1988/89 le lotte di classe in Germania occidentale si erano intensificate e nel corso del cambiamento di regime nella Germania orientale abbiamo assistito a dibattiti di massa nei luoghi di lavoro e per le strade circa un futuro sociale oltre il capitalismo e il socialismo della Repubblica Democratica Tedesca RDT – tutto ciò oggi è stato quasi dimenticato. La devastazione economica della ex RDT inizialmente aveva innescato un ampio movimento di lotta contro la chiusura delle fabbriche e il deterioramento dei servizi sociali.
Dopo i massacri della guerra del Golfo del 1991 e l’inizio della crisi economica, che in Germania veniva ritardata a causa del boom post-riunificazione, ma poi d’impeto esplodeva nel 1993, abbiamo assistito al collasso enorme delle condizioni esistenti nel settore metallurgico nella ex Germania Ovest. I sindacati hanno fatto la loro parte per salvare la Germania come “nazione-export”: ad esempio, nel 1994 la IG Metall (sindacato dei metalmeccanici) accettava l’intensificazione del lavoro e una massiccia flessibilità degli orari di lavoro con l’“Accordo di Pforzheim”. Inoltre, le prestazioni sociali venivano aggredite e ridotte su tutta la linea.
Le lotte che si sarebbero sperate - soprattutto nelle fabbriche che erano in procinto di essere smantellate nella ex Germania orientale - in gran parte non si sono concretizzate. La migrazione di lavoratori altamente qualificati dall’est all’ovest operava da valvola di sicurezza contro la pressione sociale - e il risultato era che per la prima volta ad ovest i salari erano in caduta durante il periodo post-bellico.
La disoccupazione di massa nella parte orientale veniva tamponata con vari mezzi, per esempio le aziende inviavano di continuo gli operai a seguire programmi di formazione, perché non c’era lavoro, l’orario di lavoro subiva riduzioni, a volte a zero ore. Allo stesso tempo, quando si faceva notare che un compagno di lavoro guadagnava il doppio dell’operaio vicino, pur eseguendo la medesima mansione, subito avremmo iniziato a sentire dalla base operaia commenti del tipo: “La cosa più importante è che abbiamo un lavoro”.
L“esercito industriale di riserva” era tornato! Da allora sono stati sempre capaci di dividere la componente operaia mediante l’uso massiccio di contratti a breve termine e di lavoro temporaneo.
Nella Germania Ovest degli anni 1970, avevamo imparato che, in larga misura, la funzione dell’“esercito di riserva” dei disoccupati per esercitare pressione sui lavoratori dipendenti era stata minata: fintanto che non esistevano problemi di trovare un lavoro, si poteva godere del periodo di disoccupazione pagata come una pausa ben accetta. Pertanto, eravamo cauti ad utilizzare termini come “esercito di riserva” e, soprattutto, veniva messa in discussione una prematura capitolazione.
Poi, invece, siamo stati anche testimoni di un rapido deterioramento delle condizioni dei lavoratori disoccupati. Le leggi Hartz (riforme sull’indennità di disoccupazione del 2004/2005) hanno determinato una molto più pesante caduta del reddito in caso di disoccupazione (a lungo termine).
Inoltre, la dissoluzione del “Blocco orientale” costituiva uno strappo nell’attivazione di un nuovo impulso alla proletarizzazione della popolazione mondiale. Mentre nei paesi dell’Europa orientale procedeva un tipo di “accumulazione primitiva” per mano di ex funzionari politici, che derubavano e ammassavano enormi ricchezze finanziarie attraverso privatizzazioni selvagge, le masse lavoratrici perdevano i loro diritti alla terra, all’alloggio e alle pensioni, precedente intermediario lo stato socialista.
Su scala globale, tutti i regimi si erano spostati verso il “neoliberismo”, e gli scenari di guerra si moltiplicavano - e per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, anche nella stessa Europa.
Quando il temibile concetto di “globalizzazione” veniva costruito in Germania durante la prima metà degli anni 1990 [dopo le idee di “produzione snella” (N.d.tr.: La produzione snella è un paradigma che mira a minimizzare gli sprechi fino ad annullarli) e di “Toyotismo” negli anni precedenti], Wildcat, da un lato, ha cercato di dare rilievo alle carte vincenti che i lavoratori ancora possedevano (“ i padroni hanno bisogno della conoscenza dei lavoratori”, “quelli si trovano ad affrontare costi elevati per i trasporti e le operazioni di transazione”), e dall’altro lato, ha tentato di analizzare le potenzialità connesse alla socializzazione della produzione. Se tutto il mondo era diventato capitalistico, allora non esistono più a disposizione settori non-capitalisti in grado di fornire capitale con una riserva di forza lavoro fresca, il che significa che a un certo punto il Capitale deve affrontare una classe operaia globale.
“Invece di consolidare il miraggio del potere invadente del capitale e della totale sottomissione dei lavoratori, noi dobbiamo chiederci dove sono situate le nuove dipendenze del capitale dalla classe operaia ... e il fatto che i lavoratori collaborino attraverso i continenti genera nuove potenzialità di lotta al capitale su scala globale.”1
Allo stesso modo, non venne considerata la formazione dell’Unione europea immediatamente e automaticamente come un deterioramento delle possibilità di lotte.
Questi erano i pensieri che, al momento, solo pochi hanno voluto condividere. La nostra proposta di ricerca militante su scala europea in diversi settori – l’industria automobilistica, il lavoro in ospedale, la migrazione, la precarietà – andò ad esaurirsi. Per la maggior parte della sinistra, altre questioni avevano priorità più alta: la fine del “blocco socialista”, la nuova ondata di nazionalismo e razzismo; i migranti; la creazione di sindacati alternativi ...
Con la sua pubblicazione de “Il ritorno della condizione proletaria” nel 1993, Karl-Heinz Roth invitava la sinistra ad impegnarsi nuovamente nella questione del “lavoro”. Contrastando i propagandisti di una società postmoderna, egli delineava la “tendenza verso ‘un’ nuovo proletariato in ‘un’ mondo capitalista”. Considerava la “omogeneizzazione dei rapporti di lavoro verso la precarietà, verso il lavoro a contratto e il lavoro autonomo ‘dipendente’”. La sua idea però che un ambiente di sinistra, esso stesso sottoposto a precarizzazione, avrebbe dovuto avere un interesse specifico per la ricerca militante dei rapporti di classe, conteneva un vizio di fondo: da un lato la dissoluzione delle strutture di sinistra (infrastrutture) e la tendenza verso l’individualizzazione avevano già progredito notevolmente, e, dall’altro canto, … gli accademici di sinistra erano ancora in grado di trovare qualche sostegno finanziario da università o fondazioni di ricerca.
La sinistra tradizionale ha criticato Roth in maniera piuttosto dura e dogmatica, perché egli presumibilmente aveva dato come spacciate prematuramente le parti centrali della classe operaia; la sua visione di “circoli proletari” come nuclei di organizzazione veniva scartata come settaria.
Le sue profezie espresse in quella fase sono sorprendentemente precise, una volta messe in relazione alle condizioni attuali. Questo nonostante il fatto che, in quel periodo, le modifiche ai cui si riferiva con la “globalizzazione della produzione” erano appena sul punto di evidenziarsi e l’accesso a Internet e la comunicazione elettronica erano appena disponibili all’utente comune.
Molte speranze rivolte ad un allargamento delle rivolte sociali sono da allora andate deluse e molte delle sue proposte preliminari - principalmente formulate in risposta ai suoi critici - di formare associazioni internazionali non sono state riprese, o meglio, sono ancora in attesa di essere trasformate in pratica. Il motivo principale però per cui tali proposte non sono state accolte con un ampio consenso di base è consistito nel fatto che gli anni 1990 in Europa hanno rappresentato un decennio di sconfitte, implementate dalla sinistra in obbedienza preconcetta alle teorie post-moderne e post-strutturaliste e alla ricerca di un opportuno tipo di conveniente identità. Tutti i tentativi di generalizzazione sono stati distrutti dal di dentro.
Sin dalle sue origini, il ruolo di Wildcat è stato quello di diffondere in ambito locale le parole d’ordine delle lotte di classe che avvenivano in tutto il mondo, ma dopo la dissoluzione del Blocco orientale questo non funzionava più. Molti lettori, così, si sono rassegnati di fronte alla conclamata vittoria del capitalismo. Wildcat non poteva proprio continuare come nulla fosse successo e mantenere alta la bandiera. Nel 1995 il collettivo editoriale ha smesso la pubblicazione della rivista e per diversi anni ha continuato il dibattito in forma di “Wildcat-Zirkular”.
L’apparire dell’EZLN nella Selva Lacandona con l’entrata in vigore dell’accordo NAFTA nel 1994 ha riportato la rivoluzione di nuovo all’ordine del giorno e ha aperto la strada ad un dibattito del tutto nuovo e a grandi speranze. Ancor di più quando un “movimento antiglobalizzazione” si è collegato con il movimento operaio organizzato, in risposta alla conferenza dell’OMC a Seattle nel 1999.
a) L’EZLN, Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale è un movimento armato clandestino, di stampo anticapitalista, libertario ed indigenista, attivo in Chiapas, lo Stato più meridionale ed uno dei più poveri del Messico. Il più famoso portavoce dell’EZLN è stato il subcomandante Marcos, ritiratosi volontariamente dal suo ruolo di portavoce nel maggio 2014. Uno dei loro motti è Democracia, justicia y libertad.
b) NAFTA, North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio), è un trattato di libero scambio commerciale stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico. L’aspetto che maggiormente caratterizza NAFTA è legato alla progressiva eliminazione di tutte le barriere tariffarie fra i paesi che aderiscono all’accordo. La rivolta zapatista aveva inizio perché le popolazioni indigene vedevano nell’accordo (anche sulla base di precedenti esperienze simili) un ulteriore mezzo volto a trasferire la ricchezza dalle zone povere del Messico verso il Canada e, soprattutto, verso gli Stati Uniti.
c) L’OMC, Organizzazione mondiale del commercio, conosciuta anche col nome inglese di World Trade Organization (WTO), è un’organizzazione internazionale creata allo scopo di supervisionare numerosi accordi commerciali tra gli Stati membri. Obiettivo generale dell’OMC è quello dell’abolizione o della riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale; oggetto della normativa dell’OMC sono, però, non solo i beni commerciali, ma anche i servizi e le proprietà intellettuali. N. d. tr.]
Lotte radicali sembravano prendere piede nel “sud del mondo” e nelle campagne, sotto forma di lotte contro “recinzioni” (appropriazioni private delle terre comuni) e “valorizzazioni”, piuttosto che nelle fabbriche mondiali. Nelle fabbriche, i lavoratori erano stati posti sotto pressione, i loro posti di lavoro erano stati ridotti, gli operai rimasti avrebbero dovuto lavorare di più, ecc. - e quindi articoli di giornale e pubblicazioni spiegavano loro perché le cose erano come erano: la globalizzazione significava maggiore concorrenza e “siamo in grado di restare a galla solo se abbassiamo i salari”. Il tutto suona logico, giusto? In conclusione, si tratta di argomentazioni che si limitano a confinare la forza lavoro al ruolo di vittima di onnipotenti sviluppi.
Perciò, noi ci siamo sforzati di criticare il concetto di globalizzazione e le sue applicazioni propagandistiche: il dibattito sulla “globalizzazione” cerca, a livello ideologico, di “spacciare una fase di 30 anni di stagnazione globale del capitalismo come una serie trionfale di vittorie”. 2 Invece di usare i termini “globalizzazione” o “neoliberismo” abbiamo continuato a scrivere di capitalismo e fatto riferimento agli sviluppi tumultuosi in Asia.
L’Asia è dove si suona la musica!...
Il termine ‘classe operaia globale’ (“Weltarbeiterklasse”) è apparso per la prima volta in Wildcat Zirkular no.25 (aprile 1996). L’articolo ‘Il Mondo in un cambiamento radicale’ 3 descriveva il processo di proletarizzazione dal Bangladesh all’Indonesia fino alla Cina, accompagnato da lotte dure e diffuse rivolte, e l’emergere di una nuova forza lavoro, con la migrazione dalle campagne verso il mondo urbano delle metropoli: le giovani donne, che preferivano il lavoro in fabbrica piuttosto del dominio patriarcale nel villaggio. Questi giovani lavoratori venivano definiti come una avanguardia della formazione di una nuova classe operaia, motivo per rinnovare speranze. Nell’articolo si dava come presupposto che una “esplosione di bisogni / desideri” era la base materiale del ‘neoliberismo’, che aveva annullato l’intransigenza e rigidità dei lavoratori nei vecchi paesi industrializzati, ed ora invece, a partire dall’Asia, si era innescata una trasformazione globale dei rapporti di classe. I lavoratori nei vecchi centri industriali presto avrebbero perso la loro prerogativa di essere i soli lavoratori in grado di produrre, ad esempio, automobili.
In definitiva, l’articolo era un appello per fare inchiesta su questi cambiamenti in Asia, America Latina e Africa - e per una riconsiderazione della “zavorra” teorica, del tipo teorie su “le nuove recinzioni” o la “fine dello sviluppo”.
Ne è seguito un intenso dibattito in Wildcat Zirkular sulla validità dei servizi stampa, che palesemente si commentavano da sé, sulle agitazioni dei lavoratori e sul significato della classe operaia in Asia orientale.
Parti del collettivo editoriale non riconoscevano la “crisi del capitale” e veniva riposta ogni speranza rivoluzionaria sulla “nuova” classe operaia in Asia:
“Questo è ciò che vogliamo suggerire: la classe operaia globale ricompone se stessa in una prospettiva e con una velocità senza precedenti. Questo presenta due aspetti, ed entrambi migliorano le potenzialità per il comunismo.
1. Il proletariato è diventato la parte preponderante della popolazione mondiale o in altre parole: la partenza delle masse alla ricerca della loro fortuna è un passo verso il completamento4 del capitalismo sviluppato. Solo ora ciò che Marx ed Engels hanno postulato 150 anni fa nel “Manifesto Comunista” può diventare realtà.
2. La ‘vecchia’ classe operaia, che è sinonimo di social-democrazia, sindacati, partiti comunisti, tute blu, orgoglio dei lavoratori, interessi basati sull’impresa ... perde di importanza in tutto il mondo e si dissolve in egual misura, data la fuoruscita dai luoghi della produzione, visto che è cacciata fuori dalle fabbriche, e per causa di lotte difensive di retroguardia. In linea di massima, questo processo è lo stesso qui come, ad esempio, in Cina. Ma però in Cina emerge una nuova classe operaia composta da giovani lavoratori, e, soprattutto, da lavoratrici di prima generazione. Ed è del tutto inutile spiegare perché una giovane di diciassette anni incarna la speranza rivoluzionaria più di un padre di famiglia di 35 anni.” 5
Una parte diversa del collettivo editoriale vedeva semplicemente una ripetizione della storia dell’operaio-massa, ma non vi intravedeva alcuna nuova qualità, ed insisteva su un radicamento teorico della nozione di “classe operaia globale”:
“L’emergere di una ‘classe operaia globale’ si basa sulla questione se si realizza una vera e propria socializzazione attraverso una cooperazione produttiva globale, vale a dire, sulla questione di fino a che punto la produzione globale di capitale apre la possibilità di comunismo. [...] Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima di tutto avere ben compreso l’intima interrelazione tra gli sfruttati di tutto il mondo, vale a dire, tra coloro che già producono questo mondo (sottosopra, completamente in disordine) - e coloro che sono quindi in grado di cambiarlo.” 6 “Uno dei principali problemi della politica rivoluzionaria di oggi sta nella sua incapacità di criticare teoricamente e praticamente il processo di produzione globale, in un modo radicalmente demistificante.” 7
Nel gennaio 1998 Karl-Heinz Roth affermava inoltre che, 150 anni dopo il Manifesto Comunista, il proletariato si era costituito per la prima volta oggettivamente in tutto il mondo - e che, contrariamente alla supposizione di Rosa Luxemburg, i settori non-capitalisti si erano completamente integrati . “Per la prima volta nella storia coloro che non possiedono nulla, che hanno solo da offrire e vendere la loro forza-lavoro per vivere, costituiscono quantitativamente la maggior parte della popolazione mondiale”. 8
Questa ipotesi solleva interrogativi su almeno due livelli: Dobbiamo intendere questo processo come un primo passo verso la costituzione di una classe senza mezzi di sussistenza, seguita da una seconda fase che prevede la transizione di proletari senza terra in lavoratori salariati? Oppure si sviluppa un universo di diversi rapporti di sfruttamento? Che cosa comporta questo per lo sviluppo delle lotte? 9
Durante gli anni 1980 la sinistra autonoma in Germania si era interessata più all’economia di sussistenza (o a ciò che percepiva come tale) e ai disordini provocati da coloro che erano stati esclusi dal processo di produzione capitalistica, piuttosto che ai ‘lavoratori salariati’. Nel 1983 Wallerstein aveva già sottolineato che la grande maggioranza della popolazione mondiale oggi lavora più duramente e più a lungo e per meno reddito di 400 anni fa. Potremmo definire questo processo di crescente dipendenza dal reddito salariale, nel senso di Marx, ‘proletarizzazione’. Ciò significa: un aumento del potere d’acquisto reale; quindi, a lungo termine, questo va a tutto interesse del capitale, ma d’altro canto va contro gli interessi dei singoli capitalisti che pretendono bassi costi di riproduzione dei propri lavoratori, cioè, sono interessati ad una ‘semi-proletarizzazione’: un’economia domestica basata sul reddito proveniente da diverse fonti e un’economia di sussistenza o fondata sul lavoro a domicilio. 10
Per contro, una completa proletarizzazione (che significa: sia moglie che marito sono liberi salariati e possono acquistare tutti i mezzi per la loro sussistenza) è desiderata piuttosto dai proletari. Una proletarizzazione completa richiede un ‘welfare state’, uno stato sociale che trasferisce reddito a coloro che non lavorano. La Germania Est costituiva un esempio modello di ‘proletarizzazione completa’ – dato che risolveva i suoi problemi di carenza di mano d’opera con i migranti provenienti dal Vietnam e Mozambico. Sulla base delle tesi della Luxemburg, che il capitalismo non è in grado di riprodurre la forza lavoro che esso sfrutta, Wallerstein dimostra che gran parte della popolazione mondiale non raggiunge mai la proletarizzazione completa, ma piuttosto che le famiglie restano dipendenti dalla produzione di sussistenza e si impegnano in attività di tutti i tipi, non salariate secondo norma.
Wildcat ha sottolineato la vulnerabilità delle nuove catene di trasporto all’interno del nuovo panorama mondiale, altrimenti difficili da comprendere in ragione dei rapidi cambiamenti e subitanei spostamenti. Abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulle nuove sedi di produzione - nel corso degli anni 1990, apparivano fabbriche di automobili non solo in Asia, ma anche in Europa orientale.
Utile a questo proposito è stato il libro ‘Forces of Labor’ di Beverly Silver, che, nel quadro di analisi del sistema-mondo, posizionava i fermenti sociali e le lotte della classe operaia al centro della sua ricerca.
Alla Silver riusciva rilevare che, storicamente, le lotte seguono immediatamente l’itinerario del Capitale: in reazione alle rivolte dei lavoratori negli anni 1970 il Capitale costruiva nuove fabbriche di auto in Sud Africa e Brasile – e qui si innescava una nuova dinamica di potenti lotte operaie. Durante gli anni 1980 l’industria automobilistica prosperava nella Corea del Sud – e questo provocava lotte durature del tutto simili portate avanti da una nuova generazione di lavoratori.
La cosa importante era che la Silver esaminava l’intero globo e sottolineava come le ‘correzioni strategiche’ riuscivano a riparare solo temporaneamente le falle del sistema e che il Capitale doveva senza sosta affrontare la resistenza della classe operaia - perché la conflittualità operaia è endemica al capitalismo. Sebbene la sua categorizzazione schematica fra lotte ‘secondo Marx’ e lotte ‘secondo Polanyi’ era meno convincente.
La Silver presumeva che l’indebolimento del ‘potere contrattuale’ dei lavoratori nei paesi del nord globale sarebbe stato solo temporaneo. I suoi dati empirici inizialmente erano stati raccolti solo fino al 1990, ma poi si erano allargati al 1996 - e fino al 1990 la sua analisi corrisponde puntualmente alla realtà.
In Europa orientale, però, i salari sono ancora significativamente inferiori a quelli occidentali. I lavoratori dell’automobile hanno cessato di essere i lavoratori meglio pagati, comunque questo non è vero per tutti i luoghi del pianeta.
La Silver difende una visione ciclica del mondo, la crisi è sempre ciclica, sempre seguita da fasi di sviluppo ed espansione economica. Dal suo punto di vista una grande crisi dovrebbe comportare trasformazioni fondamentali, instabilità e nel sistema mondiale dovrebbe emergere una nuova forza egemonica. Lei non pone la questione di come le lotte operaie potrebbero portare al comunismo, e “non si è interessata affatto” della lunga fase in cui i lavoratori del Sud-Est asiatico non hanno rappresentato una minaccia rivoluzionaria al capitalismo.
Oggi, la Silver spiega che la profonda crisi del movimento operaio mondiale sarebbe dovuta al fatto che la ‘soluzione finanziaria’ è stata combinata con un ‘destrutturazione’ delle classi lavoratrici già esistenti. Il Capitale si era ritirato dalla produzione, il suo lato distruttivo era dominante. Tuttavia, la Silver afferma che la correzione finanziaria era temporaneamente efficace, andando a spostare la crisi solo geograficamente - e alla fine del percorso si andava a generare una nuova e profonda crisi di legittimazione del capitalismo.11
Ed è vero, non si era mai vista una resistenza tanto organizzata contro progetti di infrastrutture, dighe, centrali elettriche, ecc - in particolare nei paesi di più recente industrializzazione come India, Indonesia o in Cina. Sia che cogliamo questi movimenti di resistenza come lotte contro la ‘mercificazione’ - o più semplicemente contro la distruzione delle basi dei mezzi di sussistenza - ormai su scala mondiale si è evidenziato che ‘il progresso tecnologico’ non porta automaticamente allo ‘sviluppo’, ma si accompagna alle distruzioni - e noi possiamo organizzarci contro tutto questo.
Questo contrasta con il fatto che il Capitale, durante un processo di industrializzazione, non ha mai incontrato così poca resistenza da parte dei lavoratori come durante la fase tra il 1990 e il 2005. È stato in grado di peggiorare le condizioni dei lavoratori continuamente, senza essere seriamente minacciato dalla loro resistenza collettiva. La compensazione di posti di lavoro nell’industria con posti di lavoro in servizi di alta qualità, come era stato previsto, si è dissolta nel nulla. Durante questo periodo le lotte operaie a livello globale - Cina compresa - hanno un carattere prevalentemente difensivo, sotto la guida della ‘vecchia classe operaia’ contro le chiusure delle imprese o le delocalizzazioni. (Questo spiega anche il motivo per cui, nello stesso periodo, la sinistra ha gettato a mare il concetto di “classe”).
L'apertura dei mercati del lavoro in India e Cina nel corso degli anni 1990 ha portato ad uno ‘shock di offerta’: da un giorno all’altro l’offerta di forza lavoro è raddoppiata. La Cina computava il doppio dei lavoratori occupati nel settore industriale rispetto a quelli dei paesi del G7 messi insieme. La Cina era diventata la fabbrica del mondo e il principale luogo di esportazione di beni di consumo di produzione industriale, in particolare di quelli con elevati volumi di prodotto. Le conseguenze per una parte della classe operaia mondiale erano - come previsto - catastrofiche: le industrie dell’abbigliamento abbandonavano il Messico e si spostavano verso l’Asia. La Cina aderirà all’OMC nel 2002 e l’Accordo Multifibre del 2005 avrebbe dovuto essere il picco di questo sviluppo - ma poi le cose sono cambiate: in Cina i lavoratori nei nuovi stabilimenti hanno iniziato a lottare e le loro battaglie si sono allargate ...
A partire dalla ‘crisi petrolifera’ del 1973 ci sono stati cambiamenti con impatto a lungo termine: oggi oltre sette miliardi di persone vivono su questo pianeta. Tra il 1950 e il 1970 il tasso di crescita della popolazione mondiale è stato del 2 per cento, poi il tasso di crescita ha rallentato, in particolare in quelle aree dove la proletarizzazione ha avuto luogo.
Nei paesi in via di sviluppo la forza lavoro è aumentata del 2 per cento, il che significa che la forza lavoro totale è raddoppiata nel giro di 30 anni, mentre in Europa questo processo è durato 90 anni. La proletarizzazione avviene a un ritmo molto più rapido rispetto a quello che l’economia capitalistica è in grado di assorbire: molti non trovano un lavoro con un salario bastevole per vivere. Un numero enorme di proletari finisce in settori privi dei requisiti di legge. Aumenta la quota di donne come parte attiva della forza lavoro. I tassi di disoccupazione sono alti, soprattutto tra i giovani, ancora di più tra i migranti, o meglio, tra le minoranze. (Questo aggrava la paura delle classi dirigenziali dominanti, paura di cui è stato trattato in precedenza: c’è una correlazione tra gli alti livelli di disoccupazione tra i giovani e la frequenza di disordini sociali; il ‘disordine sociale’ è aumentato drammaticamente dopo il 2009, con un aumento del 10 per cento degli incidenti registrati - soprattutto in Medio Oriente, Nord Africa, ma anche nel Sud dell’Europa, nell’ex Blocco orientale e un po’ meno nell’ Asia meridionale).
L'occupazione nel settore agricoltura si è ridotta drasticamente; solo nelle regioni più povere più della metà della popolazione continua a lavorare nei campi. Il processo di concentrazione nel settore agro-industriale continua e i contadini si trasformano in braccianti agricoli, alcuni dei quali vivono nelle città piuttosto che in campagna. Nell’Est asiatico la fuga dalle campagne, in larga misura, rinforza direttamente il mondo del lavoro industriale, mentre in America Latina e in Africa è soprattutto il settore dei servizi che registra la crescita. Dal 2007 (ed oltre) la metà della popolazione mondiale vive in aree urbane. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare, crescono le megalopoli, l’80 per cento degli abitanti vive in baraccopoli. Slum e baraccopoli sono espressione del fatto che la gente vuole entrare a far parte della classe operaia mondiale. Questi sono punti di partenza e stazioni di transito verso una vita migliore - nel rispettivo o in un paese diverso, dove sono necessari lavoratori.
Nel processo mondiale di proletarizzazione, il ‘lavoro mobile’ (o ‘lavoro migrante’) è diventato la forma più generale del lavoro, tanto nella forma di migrazione verso un paese differente (ad esempio, l’UE) o come migrazione interna (ad esempio in Cina , dove il governo stima che ci siano 130 milioni di lavoratori migranti, dei quali 80 milioni sono migrati dalle regioni interne più povere verso le città costiere). Ad oggi (2013), il numero dei migranti internazionali è più alto che mai: 232 milioni (nel 2000 erano 175 milioni), di cui 20-30.000.000 sono senza documenti. Tra il 2000 e il 2013, la loro quota nel quadro della popolazione totale è aumentata dal 2,9 al 3,3 per cento. La grande maggioranza di loro sono lavoratori migranti, non rifugiati o richiedenti asilo.
Uno sviluppo degno di nota è costituito dall’aumento di un proletariato di lavoratori migranti che, con l’intermediazione di agenzie internazionali di reclutamento, vengono ingaggiati in ‘semplici’ lavori privi di specializzazione per salari bassi in paesi diversi, ma dove non è previsto il loro stabilirsi in quei posti: operai edili dall’India, Pakistan, Bangladesh che lavorano nei grandi cantieri di costruzioni nei paesi del Golfo, che vivono in campi-dormitorio e la cui situazione complessiva li ha spesso indotti a scioperi e ribellioni, affrontati sempre da una repressione draconiana; milioni di lavoratori domestici dalle Filippine o dall’Indonesia, ecc. che lavorano presso famiglie ricche o benestanti negli Stati del Golfo, ma anche a Hong Kong; lavoratori badanti per le persone anziane, che si spostano dall’Europa dell’Est verso Occidente, al fine di lavorare presso famiglie che non possono permettersi di assumere una badante locale. Inoltre, sempre più spesso, operai per l’industria vengono reclutati per lavorare in lontane ‘zone franche di produzione’, al fine di scalzare la classe operaia locale.
Le condizioni di vita delle persone sono in gran parte determinate dall’ambiente della loro esistenza - ma le condizioni di lavoro dei lavoratori ‘non specializzati’ del Nord e del Sud del mondo stanno diventando strutturalmente sempre più simili. In Cina e in India, negli impianti di assemblaggio per la produzione di beni di consumo di massa si utilizzano perfino macchinari dagli standard più moderni. Lavoratori manuali non specializzati vengono impiegati ai margini della catena di approvvigionamento, nei cortili degli slums , ma anche nei magazzini dei centri di distribuzione nel cuore dell’Europa o degli Stati Uniti. All’interno della stessa catena valoriale il plusvalore assoluto e quello relativo sono combinati.
[N.d.tr.: Dal punto di vista del capitalista, il capitale erogato nella produzione si distingue in "capitale variabile" (per pagare i salari dei lavoratori) e in "capitale costante" (per le spese delle macchine e delle materie prime). L'origine del profitto capitalistico, ossia la produzione del plusvalore, è opera del capitale variabile; pertanto il capitalista tende ad aumentare il saggio di plusvalore (cioè il rapporto fra plusvalore e capitale variabile), incrementando lo sfruttamento del lavoro dell'operaio. In poche parole più il lavoratore lavora, più aumenta il capitale variabile, più il capitalista può guadagnare. Questo risultato può essere ottenuto in due modi: prolungando la durata della giornata lavorativa o riducendo la parte di essa destinata a compensare il salario pagato. Con il primo metodo, allungando la giornata lavorativa, si ottiene un plusvalore assoluto; mentre col secondo, rivoluzionando i processi tecnici del lavoro, un plusvalore relativo.]
Fino alla crisi del 1973-74, la crescita economica persistente aveva più che compensato gli aumenti di produttività e la buona riuscita della ‘razionalizzazione’, vale a dire, il tasso di occupazione non diminuiva e lo stato sociale ampliava il suo campo di azione. Da allora, la crescita della produzione industriale è entrata in stagnazione - attualmente si aggira intorno al 3 per cento; forse, in un prossimo futuro è prevista verso l’1,5 per cento?
L’occupazione nel settore manifatturiero (compreso quello delle costruzioni) è aumentata a livello globale, ma i tassi di industrializzazione, come riscontrati 50 o 100 anni fa, non si raggiungono più da nessuna parte: il Capitale abbandona le sedi, dove si trova collocato, molto più velocemente rispetto al passato, ricolloca la produzione in aree ‘più convenienti’ o la trasforma in ‘servizi’ locali - o arresta del tutto gli investimenti. In molti dei paesi di nuova industrializzazione la quota di lavoratori industriali ha già raggiunto il suo picco del 20 per cento della forza lavoro totale.
Nelle nazioni di antica industrializzazione è in atto un processo di de-industrializzazione - anche se siamo in grado di distinguere differenze importanti: negli Stati Uniti lavora nelle industrie l’11 per cento dei salariati, mentre la Germania è in cima alla lista in Europa con il 22 per cento (2007). Nel 1970 i lavoratori industriali ancora rappresentavano il 37 per cento della forza-lavoro (mentre oggi, il lavoro esternalizzato a ‘fornitori di servizi connessi con l’industria’ non conta più come lavoro industriale). 12
La globalizzazione ha portato ad una nuova polarizzazione tra posti di lavoro più o meno qualificati. Nelle nazioni di antica industrializzazione sono ridotti quei lavori che richiedono un livello medio di qualificazione, nuovi impieghi tendono ad essere temporanei e meno ben pagati. Il ‘settore dei servizi’ si sviluppa su scala mondiale - e in questo campo, comunque, questa polarizzazione si replica ugualmente: si assiste all’aumento , da un lato di lavori cosiddetti ‘semplici’ o non qualificati (pulizia, assistenza alle persone, ecc. ) e d’altro canto a lavori ‘non di routine’ che esigono livelli di qualificazione più elevati, mentre i lavori di routine che richiedono qualifiche di medio livello (contabili, impiegati d’ufficio) diminuiscono: l'introduzione dei computer ha reso molti aspetti di queste mansioni ridondanti, semplificati, e la delocalizzazione di questo lavoro è stata resa perciò più facile. Questo è uno dei motivi per cui il divario salariale all’interno dei settori si allarga.
Durante il 19°e il 20° secolo le differenze nei livelli di reddito tra paesi diversi sono state le più marcate. Nel corso degli anni queste differenze sono diminuite a causa delle lotte della classe operaia all’interno dei singoli paesi. Negli ultimi 20 anni questa tendenza verso la parità è nuovamente cambiata: mentre le condizioni di vita tra le diverse nazioni diventano sempre più simili, le differenze di reddito all’interno dei paesi si sono acuite drasticamente.
Nei paesi di recente industrializzazione il divario salariale è altrettanto elevato come nell’ Europa di 100 anni fa. Negli Stati Uniti, tra il 1950 e il 1970, le differenze salariali sono state le meno accentuate - nel corso degli anni 1960 erano meno pronunciate, ad esempio, rispetto alla Francia, dove solo dopo il 1968 i livelli di reddito più bassi sono stati in grado di colmare il loro ritardo. A partire dalla contro-rivoluzione neoliberista la disparità di reddito è esplosa, e si è ulteriormente aggravata con il manifestarsi della crisi globale - soprattutto se si prendono in considerazione i salari netti, una volta dedotte le imposte e i trasferimenti per contributi sociali. Tra il 1970 e il 2010 il valore medio dei patrimoni privati in termini monetari è aumentato in modo significativo, in particolare in Giappone e in Europa. Questo aumento del ‘tasso di risparmio’ si è tradotto in una diminuzione della crescita – le imprese hanno cessato di investire. Gli attivi finanziari detenuti dagli Stati-nazione si sono ridotti e il debito pubblico è cresciuto. Nei paesi dell’ex capitalismo di stato, (ma non solo), attraverso il processo di privatizzazioni è stato messo in atto l’estremo saccheggio e l’accumulo esasperato di beni in mani private. 13
Miniere: Una volta, i minatori e le loro famiglie vivevano vicino alle miniere, quindi i loro villaggi costituivano anche comunità di lotta. Ecco, è in corso un importante processo di ristrutturazione, in particolare quando si tratta di miniere a cielo aperto: ora, i minatori sono spesso ingaggiati come lavoratori con contratti a tempo determinato, di durata limitata, e vivono in insediamenti di container (o di altre forme di alloggio organizzato) lontano dalle loro famiglie.
Tessile / abbigliamento / industria calzaturiera: Questi sono i settori più importanti nei paesi in via di sviluppo. Soprattutto vi sono impiegate giovani donne – situazione del tutto paragonabile a quella in Europa del 19°secolo. La ‘nuova divisione internazionale del lavoro’ nel corso degli anni 1970 ha avuto le sue origini in questi settori. Le fabbriche possono essere delocalizzate più facilmente, dato che i macchinari per la produzione non sono particolarmente costosi. Il settore è caratterizzato da imprese di piccole e medie dimensioni, i margini di profitto sono bassi. Le imprese dipendono in larga misura da contratti di fornitura sottoscritti con grandi marchi di moda o con catene di vendita al dettaglio. Il design di progettazione e (a volte) il taglio avvengono separatamente dai reparti di produzione a forte intensità di mano d’opera (esternalizzata). Nel 2005 e 2008 sono state abolite le barriere mondiali di importazione che dovevano proteggere le industrie locali. Oggi, la Cina (o meglio, le ‘imprese in Cina’) è il più grande produttore manifatturiero al mondo, impiegando in questi settori 2,7 milioni di persone. Le aziende con sede sociale in Taiwan gestiscono fabbriche in Messico e Nicaragua, le imprese cinesi aprono nuovi stabilimenti in Africa.
Automobile: L’automobile resta ancora il bene di consumo più complesso. Poche imprese automobilistiche multinazionali dominano il settore, con la pianificazione a lungo termine delle attività delle unità produttive locali e con elevate esigenze in materia di infrastrutture. Il settore dipende in maniera massiccia da sovvenzioni statali. Le fabbriche moderne utilizzano macchinari costosi e sempre più impiegano solo lavoratori tecnologicamente qualificati. La forza lavoro è segmentata in permanenza, personale con contratti a tempo determinato, lavoratori interinali, lavoratori a contratto, tutti divisi da significative differenze salariali. Questo è un fenomeno globale.
Elettronica di consumo: Si tratta di lavoro parzialmente qualificato, comunque una grande quota di lavoratori vengono formati all’interno dell’impresa. I livelli di qualità richiesti da questi prodotti sono elevati, in quanto i prodotti tendono ad essere costosi. Rispetto alla dotazione strumentale e ai macchinari possiamo riscontrare investimenti principalmente a lungo termine, che implicano una pianificazione decisamente ponderata su dove stabilire la produzione. La produzione per conto terzi per vari marchi in mega-fabbriche, soprattutto in Cina, è diventata comune (Foxconn, ecc): la loro capacità produttiva è abbastanza sviluppata da produrre i telefoni cellulari per l’intero pianeta.
Edilizia: Durante gli ultimi decenni, questo settore ha giocato un ruolo sempre più importante, dovuto al fatto che i progetti di complessi residenziali e di gigantesche costruzioni sono stati solo mezzi per gonfiare bolle speculative. Nei cantieri vengono impiegati principalmente migranti provenienti dalle campagne o dall’estero. Soprattutto si tratta di lavoratori maschi. I progetti di importanti costruzioni sono spesso sviluppati all’esterno di aree urbane, il che significa che i lavoratori sono collocati in accampamenti e baracche.
Logistica: Accanto alla rilocalizzazione globale della produzione, la quantità di lavoro nel settore dei trasporti è aumentata in modo spettacolare, mentre nel contempo si registra un calo significativo dei costi di trasporto. Oltre a qualche gruppo di professionisti ben pagati, il settore vede l’impiego principalmente di lavoratori manuali non specializzati, spesso di migranti in condizioni di semi-legalità. Nei centri di distribuzione in tutto il mondo stanno emergendo nuove importanti concentrazioni di lavoratori.
Servizi: Tutto ciò che non è agricoltura, estrazione mineraria o fabbricazione manifatturiera. Mentre in passato i servizi venivano espletati là dove si rendevano direttamente necessari, oggi la maggior parte del lavoro d’ufficio, come i servizi amministrativi e logistici (back-office), contabilità, call center, ecc. può essere eseguita in qualsiasi parte del mondo, basta avere a disposizione una connessione Internet.
La segmentazione dei lavoratori attraverso i diversi rapporti di lavoro è una grande sfida per le lotte comuni, le vecchie formule consuete sono diventate inefficaci. (Dopo gli scioperi all’inizio degli anni 1970, i «lavoratori ospiti» (Gastarbeiter) avevano lottato per trovare la loro collocazione all’interno dei sindacati, costituendo così la base degna di fiducia per tutte le mobilitazioni future. Al contrario, i nuovi immigrati sono per lo più lavoratori a contratto temporaneo o interinali.)
Ma solo nella narrazione stalinista o socialdemocratica la classe operaia viene rappresentata come un blocco omogeneo. In realtà era già molto eterogenea nel 19° secolo o nel 1920, - e non solo in termini di divisioni tra i lavoratori e lavoratrici, o fra operai del posto e immigrati. Non possiamo equiparare la classe operaia con i soli lavoratori dell’industria! Anche nell’Inghilterra del 19° secolo la metà della forza lavoro era impiegata al di fuori del sistema di fabbrica. E potremmo anche trovare differenze salariali addirittura del 300 per cento in Germania, tra i lavoratori di fabbrica con passaporto tedesco. Seppure in tali circostanze, storicamente la classe operaia ha imparato più e più volte a lottare (insieme).
Nell’autunno del 2008 veniva pubblicato un articolo nel Wildcat No.82, che attaccava la romanticizzazione della classe dei contadini da parte del movimento anti-globalizzazione. La tesi principale era che in ogni caso attualmente la ‘questione contadina’ non occupava una posizione separata e che piuttosto bisognava inglobarla nella ricomposizione, a partire dal basso, della classe operaia globale.
“Nel corso delle prime fasi della storia, gli esseri umani solevano produrre i loro mezzi di sussistenza in piccole comunità ed erano dipendenti dalle fluttuazioni naturali della produzione. In contrasto a questo processo, fin dall’inizio il Capitalismo ha creato il mercato mondiale, e la sua principale forza produttiva (le macchine) è essa stessa un prodotto del lavoro umano. Il contesto generale di una società globale diventa la condizione fondamentale della nostra esistenza e della nostra riproduzione (“una Seconda Natura”), e in questo senso questa è la vera comunità umana. Solamente dopo, i mezzi di sostentamento dell’umanità hanno iniziato a dipendere dal lavoro sociale piuttosto che da quello individuale, e quindi siamo stati in grado di sollevare la questione dell’appropriazione collettiva dei mezzi di produzione - e ai nostri giorni questa questione si impone a livello globale!”14
Contrariamente a questa proposizione, Samir Amin 15, fra gli altri, continua a presentare una posizione antimperialista classica. Egli divide ancora il globo nella triade (Unione Europea, Giappone, Stati Uniti) e nelle periferie del mondo, in cui vive l’80 per cento della popolazione mondiale, metà della quale nelle campagne. Se non si trova una soluzione per tutta questa massa di persone, nessun ‘altro mondo’ sarebbe possibile. Amin valuta che il processo che gli altri chiamano globalizzazione in realtà non è altro che un’implosione in corso del sistema imperialista. Egli scarta come ingenua l’idea del movimento anti-glob di cambiare il mondo senza prendere il potere – tanto ingenua come l’idea di un compromesso ecologico con il Capitale. Amin afferma che la ‘rendita imperialista’, di cui gli strati medi sociali del nord globale beneficiano, costituisce un ostacolo al percorso di una lotta comune. Al fine di instaurare il socialismo o il comunismo, i lavoratori e i popoli devono trovare strategie offensive su tre livelli, come già puntualizzato da Mao: il popolo, lo Stato, la nazione. Un ritorno al modello keynesiano del dopoguerra è impossibile - la storia non fa retromarcia. Tuttavia, secondo Amin la questione contadina resta comunque centrale: l’accesso alla terra per tutti i contadini e lo sviluppo di un’agricoltura più produttiva, tutto all’opposto del ‘folklore campagnolo’, attraverso la costruzione di industrie e lo sviluppo di forze produttive.
Queste proposte politiche sono antiquate, come analisi ancorate nel passato: attualmente in Cina è la terza generazione di lavoratori migranti che sta lavorando in fabbriche che alimentano il mercato globale. Nel processo di esodo di milioni di contadini sradicati dalle aree rurali, si è andata a formare in maniera classica una classe operaia industriale. La divisione tra abitanti delle città e abitanti rurali non è stata superata, ma gli ex abitanti dei villaggi hanno in gran parte dissolto i loro legami con la terra e, soprattutto, non vogliono più tornare ad essa!
Più interessante, però, è la tesi di Amin contro l’idea che i paesi in via di sviluppo nei ‘mercati emergenti’, ad esempio, le nuove ‘Tigri’, il Brasile, la Turchia, ecc, potrebbero diventare i nuovi centri del capitalismo: secondo lui, le ‘valvole di sicurezza’ necessarie perchè questo avvenga mancano in queste regioni. La proletarizzazione in Europa del 18°secolo aveva come valvola di sfogo di sicurezza la migrazione verso l’America. Oggi avremmo bisogno di diverse Americhe perchè processi simili di industrializzazione possano accadere nei paesi a ‘mercato emergente’. Quindi questi non hanno possibilità di recupero. Per approfondire l’analisi, questo argomento deve essere ulteriormente affinato attraverso la seguente domanda: che cosa succede nei processi reali e attuali di industrializzazione, una volta che le lotte non possono essere incanalate verso la democrazia sociale, da una parte, o d’altro canto verso la migrazione di massa?
Spesso, ci si rende conto solo col senno di poi, se e quando è avvenuta una trasformazione con un salto di qualità. Nel 2004 veniva registrato il primo ‘ingorgo stradale globale’. Gli scioperi in Cina nel delta del Fiume delle Perle, nel 2004, al culmine del boom segnavano il primo grande ciclo di lotte nel ‘nuove fabbriche’. Attraverso lotte offensive, gli scioperanti ottenevano significativi aumenti salariali, con conseguente effetto sulla situazione nelle fabbriche in tutta l’Asia orientale. In Vietnam, Cambogia, Bangladesh, Bahrain, scoppiarono scioperi dei lavoratori e con la vertenza dei conducenti di autobus in Iran nel 2006 prese piede il primo importante sciopero dal 1979! Un’ondata mondiale di lotte operaie può essere ripercorsa a partire dal 2006, vale a dire prima della grande crisi economica globale. Questa ondata raggiunse il suo picco nel 2010, quando gli scioperi avvennero in quasi tutti i paesi del mondo, aprendo la strada a rivoluzioni politiche e a movimenti di protesta per le strade. Questi ultimi avvenimenti hanno attirato molto di più l’attenzione dei media; comunque, senza gli scioperi nel settore dei fosfati in Tunisia e gli scioperi di massa nel settore tessile a Mahalla in Egitto tra il 2006 e il 2008, le insurrezioni in questi paesi non avrebbero avuto luogo.
Gli anni che vanno dal 2006 al 2013 sono stati caratterizzati da un’ondata di proteste di massa per le strade, da scioperi e rivolte di dimensioni senza precedenti. Secondo la Friedrich-Ebert-Stiftung di New York, 16 questa ondata è paragonabile solo ai moti rivoluzionari del 1848, del 1917 o del 1968 – questo centro studi ha analizzato complessivamente 843 movimenti di protesta tra il 2006 e il 2013, in 87 paesi, che coprono il 90 per cento della popolazione mondiale: proteste di ogni tipo, contro le ingiustizie sociali, contro la guerra, per un’effettiva democrazia, contro la corruzione, rivolte contro gli aumenti dei prezzi degli alimentari, scioperi contro i padroni e scioperi generali contro l’austerità. (Meno positive sono state, ad esempio, le mobilitazioni clericali 16 in Polonia contro l’aborto).
Degno di nota è il gran numero di proteste che si sono svolte in paesi ‘ad alto reddito’ e il fatto che solo il 48 per cento delle proteste violente è avvenuto in paesi a basso reddito; nella maggior parte dei casi avevano come motivazione gli alti prezzi degli alimentari e dell’energia. Quarantanove manifestazioni di protesta esigevano riforme agrarie, 488 avevano come obiettivo le politiche di austerità e richiedevano giustizia sociale, mentre 376 proteste proclamavano la volontà di conseguire una ‘effettiva democrazia’. Molte proteste erano espressioni della completa perdita di fiducia nella ‘Politica’. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i dimostranti presentavano le loro richieste allo Stato: erano i responsabili politici che avrebbero dovuto agire! Spesso le forme di lotta sono andate al di là delle dimostrazioni o degli scioperi tradizionali, assumendo il carattere della ‘disobbedienza civile’, attraverso, ad esempio, blocchi stradali ed occupazioni. In particolare, le occupazioni della pubblica piazza e l’organizzazione comunitaria della vita quotidiana come forme di lotta hanno avuto ripercussioni sull’intera area del Mediterraneo e negli Stati Uniti.
Il confronto con il ‘Sessantotto’confonde più di quanto sia in grado di chiarire: il Sessantotto rappresentava un movimento rivoluzionario globale, ma non è stato l’anno del picco degli scioperi - al contrario, questi hanno avuto inizio negli anni 1960 e hanno raggiunto il culmine solo verso la metà /o la fine degli anni 1970.
Rivolte per il cibo - Fin dall’inizio della crisi economica globale dovuta alla speculazione finanziaria, il Capitale si era rifugiato verso risorse più ‘sicure’, come le materie prime, gli alimenti di base e i terreni agricoli e, quindi, entro un breve lasso di tempo, innescava un massiccio rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari essenziali; questi prezzi hanno raggiunto i massimi storici, prima nel dicembre 2007 e poi di nuovo nel 2010. Tra l’autunno 2007 e l’estate 2008, i proletari in larga parte dell’Africa e della Cina hanno reagito con scioperi e movimenti insurrezionali e hanno costretto i loro governi o i loro padroni a continuare a sovvenzionare le derrate alimentari di base.
Il movimento delle piazze - Sulle ‘piazze’, i raggruppamenti e le organizzazioni dalle tendenze rivoluzionarie sono stati attivi, ma effettivamente minoritari. La maggior parte dei partecipanti era ‘attiva sulle strade’ per la prima volta e dimostrava una notevole capacità nell’auto-organizzare la vita quotidiana e nella riproduzione delle informazioni – ma questi manifestanti non erano ‘militanti politici’. L’immagine mediatica di questi movimenti era in gran parte influenzata dalla classe media, forse perché i giornalisti comunicano al meglio con le persone del proprio contesto sociale. E una protesta di massa nella capitale riceve più visibilità di uno sciopero nelle province. Per tutto questo, la partecipazione dei proletari è stata largamente sottovalutata, sebbene molti di loro avessero preso parte e combattuto la polizia in prima linea. Però questi movimenti erano, nella maggior parte dei casi, rivolti contro il governo, contro la corruzione e per la ‘democrazia reale’, e non per la ‘causa del lavoratori’. 17
Il movimento sembrava avere un carattere mondiale, ma rimaneva intrappolato nel quadro dei rispettivi Stati nazionali. Molti di questi movimenti presentavano ‘due anime’: da un lato, i proletari più poveri e i migranti che avevano perso il lavoro, dall’altra parte, gli intellettuali e gli universitari precari che consideravano un lavoro ben pagato come un diritto umano. La classe media era stata particolarmente colpita dalle politiche dei tassi di interesse elevati, dai debiti statali e dalle misure di austerità – questo ha spinto componenti del ceto medio ad assumere posizioni più radicali e quindi ad entrare in azione. A volte alcuni hanno spiccato il salto nel gioco della politica e della partecipazione al potere attraverso le elezioni - come i Podemos in Spagna.
L’ondata di scioperi mondiale - In Wildcat no.90 Steven Colatrella, nel suo documento ‘Nelle nostre mani è riposto un potere’, sottolineava come le lotte, nell’ultimo quadrimestre del 2010, erano andate a configurarsi in un’ondata di scioperi globale. Nel 2010 gli scioperi raggiungevano una portata geografica e quantitativa senza precedenti nella storia. Egli attribuisce questo alla fine del neoliberismo e alla ri-costituzione della classe operaia. Secondo Colatrella, l’espansione degli scioperi condotti con modalità ‘tradizionali’ era in grado di fornire alle lotte un potere, una direzione e un aiuto tali da superare le debolezze dei ‘tumulti contro il FMI’.
“Ma lo spostamento delle produzioni su scala mondiale non ha prodotto nuove classi lavoratrici, [...] ma piuttosto questo spostamento globale ha creato un nuovo potere strutturale per grandi settori di lavoratori che raramente avevano goduto di un tale potere, se non forse a livello strettamente nazionale.” 18
I lavoratori nel settore tessile, nel comparto calzaturiero, nel settore automobilistico o di altre produzioni ora erano in grado di andare all’attacco delle strutture di potere economico globale, sia a livello nazionale che mondiale. Una più stretta integrazione nell’economia mondiale e le aggressioni simultanee alle loro condizioni di vita attraverso la crisi del capitalismo avevano accresciuto sia il loro potere strutturale che organizzativo. L’ondata di scioperi è parte della formazione di classe, collegando fra loro le lotte e dando senso politico allo scontro contro la globalizzazione capitalista. I lavoratori che difendono i loro interessi economici entrano in diretto confronto con il potere politico. Le loro lotte hanno quindi valore politico.
Colatrella concettualizza l’ondata di scioperi globale a partire dal 2007 come “scioperi contro la governance del mondo”, vale a dire, come l’azione mondiale e simultanea dei lavoratori di molti paesi contro lo stesso nemico. Ma la simultaneità non crea un’effettiva comunanza di visione politica, e un nemico comune non significa necessariamente che si creano dei legami fra coloro che lo combattono.
Di fronte alla stagnazione dei tassi di crescita nei principali paesi di antica storia, il Capitale ha focalizzato le sue aspettative sui cosiddetti Stati BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa – dove risiede il 40 per cento della popolazione mondiale, l’acronimo è un’invenzione del 2001 della banca di investimenti statunitense Goldman Sachs), che (a parte la Russia) beneficiano di una forza lavoro industriale giovane, in espansione, che rivendica condizioni di vita migliori. Il presidente dello Stato del Brasile assicurava a tutti una promozione nella ‘classe media’. Inizialmente sembrava che gli Stati BRICS non fossero colpiti dalla crisi generale e le economie controllate dallo Stato come quella cinese sembravano ‘immuni’ contro questa crisi. I capitali non investiti sono volati verso queste regioni, i tassi di crescita in un primo momento hanno continuato ad aumentare, anche se più lentamente rispetto agli anni precedenti.
Ma è soprattutto in questi paesi ‘sostenuti’ dal capitalismo che i lavoratori sono riusciti a imporre consistenti aumenti salariali attraverso dure lotte. I loro scioperi hanno molti punti in comune: per lo più avvengono in settori centrali delle rispettive economie, le imprese interessate operano a livello multinazionale, nelle loro lotte i lavoratori si contrappongono ai sindacati esistenti, cercano sindacati alternativi o mettono in campo le loro proprie forme di organizzazione. In molti casi, lo Stato attacca gli scioperanti con violenza, per contro i lavoratori esercitano la violenza contro i responsabili e i dirigenti delle imprese, o contro i crumiri. 19
Nel 2014 questi scioperi sono continuati, anche se, come nel caso dell’India, la loro azione si inseriva in un quadro di una massiccia svalutazione della moneta locale e di un calo delle vendite nel settore automobilistico. Dal 2013 una parte consistente di capitali è stata ritirata dagli Stati BRICS e trasferita verso i cosiddetti Stati MINTS - Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia e Corea del Sud – ed anche questi Stati presentano una popolazione di grandi dimensioni e molto giovane e almeno alcuni di loro sono stati teatro di imponenti movimenti di protesta negli ultimi anni. Nel giugno 2013, in Turchia ha avuto luogo un’importante sollevazione popolare (‘le proteste di Gezi Park’) e nel maggio 2015 l’intero settore automobilistico è stato scosso da un’ondata di scioperi, nel corso della quale i lavoratori hanno cacciato via i loro vecchi sindacati. In Iran, il 2014 è stato l’anno con il maggior numero di controversie industriali e di proteste dei lavoratori. Il momento più intenso è stato lo sciopero dei 5.000 lavoratori nelle miniere di minerale di ferro di Bafgh, quando i lavoratori sono riusciti a fermare la privatizzazione. I lavoratori hanno proseguito le agitazioni per quasi 40 giorni, fino a quando l’ultimo operaio arrestato veniva rilasciato – si trattava della vertenza più lunga dopo la rivoluzione del 1979.
Nei paesi di nuova industrializzazione, si sono manifestati movimenti dei lavoratori con notevoli similitudini, nonostante la grande diversità dei rispettivi ambienti, sia dal punto di vista culturale che politico - e questi movimenti hanno imposto notevoli aumenti salariali nel giro di pochi anni. 20 I lavoratori si sono avvalsi della loro posizione nelle catene di produzione internazionali, ad esempio durante lo sciopero delle fabbriche Honda in Cina. 21
In molte lotte sono state presentate richieste paritarie, idonee all’azione contro la segmentazione all’interno della forza lavoro, che i padroni al giorno d’oggi cercano di imporre a livello mondiale in tutte le imprese includenti quote maggiori di lavoratori specializzati (Esempi: i lavoratori dell’industria automobilistica in India, i lavoratori nelle miniere in Sud Africa).22
Come fanno le lotte operaie a diventare rivoluzionarie? La Rivoluzione si sottrae alla deriva dalle condizioni oggettive, al contrario le affronta. Se in una società caratterizzata da rapporti patriarcali le lavoratrici lottano collettivamente per il miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro, se si assumono rischi nella lotta, attraversando confini, scoprendo nuove potenzialità e desiderando saperne di più sul mondo, allora questo processo è probabilmente ‘rivoluzionario’. Che visione di ‘comunismo’ possono avere i lavoratori in un paese dove i capitalisti sono organizzati all’interno del Partito Comunista? Dovranno sviluppare nuove idee attraverso le lotte. Questo processo sicuramente vedrà il suo inizio non unicamente dalle fabbriche, invece avrà bisogno di impulsi esterni, per esempio, da movimenti giovanili, che puntualizzano su tutto e tutto mettono in discussione.
Il concetto di ‘classe operaia mondiale’ si contrappone all’idea di una ‘classe operaia nazionale’. Si presuppone che non esistano più le condizioni per una integrazione della classe operaia nello Stato attraverso un movimento operaio (socialdemocratico). Nel 1848 i lavoratori non concepivano ancora ‘la Patria’, ad un artigiano proletario non importava di lavorare a Colonia, a Parigi o a Bruxelles. Solo le politiche sociali statuali e l’orientamento dei partiti operai a ‘portare le lotte all’interno dello Stato stesso’ hanno vincolato gli operai al concetto di ‘Nazione’. Dal 1968 ha preso spazio un diffuso ri-orientamento a lungo termine del movimento proletario con una decisa presa di distanza dallo Stato - e dal concetto di Stato stesso. Dal 1980 lo smantellamento dello stato sociale ha prodotto una qualche ‘alienazione’, un certo allontanamento di gran parte della società nei confronti dello Stato, ma per la ‘classe operaia centrale’ lo Stato funziona ancora: basta considerare i massicci interventi statali dal 2008 per salvare l’industria automobilistica in Germania, Stati Uniti e in Francia. Per la sinistra tradizionale lo Stato è il campo politico entro il quale il sistema capitalistico può essere cambiato, o meglio, le sue peggiori conseguenze possono essere ‘dominate’.
Storicamente il Capitale, fin dal suo inizio, si è espresso come relazione globale, mediata attraverso il mercato mondiale. Ma senza lo Stato e (le istituzioni che applicano) le leggi e i mercati nazionali del lavoro, il Capitale non sarebbe stato in grado di sopravvivere e di svilupparsi. Lo stato sociale garantisce alcune protezioni sociali solo per la propria popolazione e, quindi, trasforma i proletari in ‘cittadini’. Ma il Capitale è stato in grado di svilupparsi solo avendo accesso ad un esercito industriale di riserva costituito da braccianti agricoli, contadini, proletari sotto-occupati di altri paesi. Oggi, in quasi tutti i paesi industrializzati sono presenti classi lavoratrici multinazionali senza più legami profondi con lo Stato in cui vivono - mentre i lavoratori ‘locali’ e ‘naturalizzati’, e le classi medie in via di declassamento, si aggrappano allo Stato ed esigono da questo una protezione speciale.
Nel corso degli ultimi 20 anni, il nemico di classe ha smantellato le strutture statali ovunque non è stato in grado di far fronte alla lotta di classe, mettendo in gioco eserciti privati, mafia e regimi da guerra civile. Questa distruzione dei sistemi di sicurezza sociale ha prodotto movimenti migratori su larga scala. In tali situazioni dense di minacce diventano più attrattivi, come isole di stabilità, gli ‘Stati forti’ o le ‘democrazie controllate’ (Russia, Cina). Dove la classe operaia può sfruttare l’assenza dello Stato per edificare le sue proprie strutture? Qual è il bilancio di una globalizzazione dal basso?
Oggi è possibile per i lavoratori stabilire contatti diretti tra di loro, da un capo all’altro, anche a grandi distanze, senza dover fare appello a mediatori. Grazie alle reti digitali è diventato molto più facile, anche in aree remote, conoscere cosa sta succedendo nel mondo, rispetto a tre, quattro decenni fa. Le lotte diventano contagiose se i lavoratori in un’impresa vengono a conoscere che altri lavoratori, pur correndo dei rischi, vedono la loro lotta coronata da successo - come ad esempio lo sciopero nelle fabbriche di calzature di Yue Yuen nel 2014, che ha visto la partecipazione di 40.000 lavoratori. Nel 2015, in Vietnam, circa 90.000 lavoratori della stessa impresa sono entrati in sciopero, mentre contemporaneamente 6.000 lavoratori di nuovo scendevano in lotta in Cina.
Dopo la vertenza del 2014 non è passato un mese in Cina senza che almeno un calzaturificio non sia stato colpito da azioni di lotta dei lavoratori.
I lavoratori si interessano delle rispettive lotte, anche oltre i confini nazionali - anche senza visibili contatti organizzativi. Gli operai delle diverse imprese riferiscono sulle loro condizioni e discutono fra di loro, ad esempio, sui forum di Internet.
I legami più evidenti tra i proletari di tutti i paesi sono i migranti. Ci sono stati momenti storici in cui masse di lavoratori militanti hanno abbandonato i loro rispettivi paesi per evitare la repressione - come la Spagna e la Grecia negli anni 1970 o la Turchia negli anni 1980 - e hanno portato con sé le loro esperienze di lotta e di organizzazione. Nelle lotte delle fabbriche in Germania, spesso hanno costituito le avanguardie. Un altro esempio è rappresentato dagli immigrati dal Messico, che hanno lasciato questo paese per trovare lavoro nel settore agricolo negli Stati Uniti e qui hanno organizzato scioperi. (Non tutti i lavoratori migranti sono o rimangono proletari - il lavoro autonomo è spesso l’unico modo per uscire dalla miseria e la rete di loro connazionali può servire come mezzo per organizzare le proprie scelte iniziali. I migranti spesso appartengono a quei gruppi di persone che vogliono progredire e ottenere condizioni di vita migliori, qualunque cosa accada e a qualsiasi prezzo, e a questo scopo decidono di mobilizzare una riserva di manodopera mal pagata dall’interno delle loro comunità. Pertanto tali reti non servono affatto per gettare le fondamenta organizzative della lotta di classe.)
“Il proletariato sembra quindi scomparire nel momento stesso in cui la condizione proletaria si generalizza.” (Samir Amin)
Per quattro decenni la velocità dei movimenti di classe non è stata in grado di eguagliare la velocità con cui il Capitale ha percorso il globo in cerca di forza lavoro valorizzabile. Ora, questa situazione si è capovolta. I lavoratori in Egitto, Cina, Bangladesh, Messico, Sud Africa, ecc. fanno uso delle nuove possibilità tecnologiche per difendere i propri interessi; le loro lotte acquistano rapidamente un’audience mondiale. Per la prima volta emerge una classe operaia globale con la capacità di organizzare la produzione e la riproduzione globale - e quindi può trasformare questo mondo. Nel Nord del mondo è più difficile registrare questa ‘nuova condizione’; in effetti, dopo gli anni 1980, il Capitale ha utilizzato la minaccia della delocalizzazione per ricattare i salariati. (Mentre allo stesso tempo una piccola parte della classe operaia - ‘il ceto medio’ - è riuscita a guadagnare del denaro profittando della speculazione finanziaria, almeno temporaneamente, a volte di più che attraverso il lavoro.)
Quale ruolo possono giocare i militanti o gli intellettuali di sinistra? A partire dalla grande ondata di scioperi del 2010, gli scienziati sociali orientati verso sinistra in tutto il mondo hanno riscoperto la classe operaia e hanno impostato ricerche sui movimenti dei lavoratori. Ma quando i sociologi intervistano lavoratori individualmente, ne escono spesso con una buona dose di frustrazioni, perché queste persone pensano solo a se stesse e alle loro famiglie. Forse che costoro sono “un diverso tipo di specie umana”, una volta che sono al lavoro o quando lottano tutti insieme? E.P. Thompson scriveva già nel 1963 che, se la storia sociale venisse fermata in un dato momento, si troverebbero solo degli individui. La ‘Classe’, al contrario, definisce le persone che vivono tutte insieme la loro propria storia - quindi deve essere analizzato un periodo di storia sufficientemente lungo.
‘The Making of ...’, la formazione della classe operaia è uno sviluppo all’interno della storia politica e culturale e al tempo stesso all’interno della storia economica. “La classe operaia si è costruita da se stessa, tanto quanto è stata costruita.” 23
E d’altro canto, perché i lavoratori dovrebbero fare affidamento sugli scienziati sociali ?
In ‘Junge Welt’, 24 il filosofo ungherese Gaspar Miklos Tamas ha recentemente affermato che per la prima volta nella storia ci troviamo ad affrontare la situazione grottesca di una intellighenzia marxista senza un movimento marxista. Questo porta con sé due pericoli: da un lato, il pericolo dell’avanguardismo che parla a nome di un proletariato ‘passivo’ - un proletariato che ignora che qualcuno prende la parola al suo posto, un proletariato che non condivide i valori dell’avanguardia che spiega ai proletari quello che si suppone dovrebbero sentire, pensare e fare. Principalmente sono piccole formazioni della sinistra radicale ad incorrere in questo pericolo. L’altro pericolo è la fusione della sinistra radicale con il movimento generale, democratico, antifascista e egualitario – ciò che causerebbe la scomparsa della critica marxista.
Entrambe queste tendenze si possono riscontrare nell’ambito delle nuove lotte di classe. Alcuni vogliono costruire da subito una ‘nuova Internazionale’ – e ce ne sono già così tanti! Altri rifiutano di criticare la classe operaia e il loro intento è solo quello di sostenere i lavoratori nelle loro lotte. Costoro vogliono fare uso delle reti decentrate organizzate dalle ONG o si precipitano direttamente nelle braccia dei sindacati.
Conferenze internazionali vertono sulla questione di come i lavoratori possono entrare in contatto a livello mondiale. Purtroppo perdura ancora il tradizionale ‘internazionalismo operaio’ con le sue organizzazioni centralizzate e gerarchiche che lasciano poco spazio all’aperto dibattito. Alle conferenze internazionali i delegati di queste organizzazioni hanno la presunzione di asserire, fingendo, che esistono ancora in tutto il mondo operai o impiegati che godono di un impiego a vita nella medesima impresa, per i quali i sindacati o i partiti dei lavoratori riescono ancora ad ottenere la ridistribuzione di una quota parte della ricchezza crescente. 25
Ma esistono anche attivisti di sinistra, critici dei sindacati, che tentano di organizzare i contatti tra le forze del lavoro dei differenti siti delle multinazionali - anche se è molto difficile andare oltre le visite reciproche e unificare realmente le lotte o organizzare scioperi di solidarietà.
Nel corso degli ultimi cinque anni, una parte diversa della sinistra radicale che vuole abolire lo Stato ha riposto le sue speranze nei sommovimenti popolari. Il ‘movimento delle piazze’ nel 2011 ha sorpreso e superato il dibattito sulla ‘insurrezione che sta per arrivare’. Sicuramente, le occupazioni delle piazze in Grecia nel 2008, gli Indignados in Spagna, l’occupazione del Gezi Park in Turchia, Stuttgart 21, Hong Kong, ecc. sono stati tutti movimenti con centinaia di migliaia di partecipanti - ma, in conclusione, non sono stati in grado di imporre alcunché! Questi movimenti hanno reso visibili le potenzialità che sollevamenti popolari simultanei possono avere su scala globale -, ma anche brutalmente hanno dimostrato i loro limiti: ad esempio, in Egitto, dalla Comune di Tahrir si è passati alla dittatura militare. I molti movimenti dopo Seattle, le sollevazioni di massa in Argentina nel 2001 e, infine, Occupy Wall Street, ecc., hanno dimostrato con la massima chiarezza che un ribaltamento dell’ordine sociale esistente è possibile solo una volta che i lavoratori prendono parte alle rivolte come lavoratori. Non è sufficiente che prendano parte alle manifestazioni, devono entrare in sciopero. In regime di capitalismo, lo sciopero è l’ultima arma attraverso cui il vero potere si sviluppa e si formano i soggetti collettivi.
Perfino il Comitato Invisibile, che fino ad ora non si è curato tanto dei lavoratori, ha iniziato ad avvicinarli (almeno a parole) 26 - e questo è uno sviluppo interessante: perché chi vuole abolire lo Stato, chi agogna la rivoluzione non sarà in grado di farlo senza i lavoratori! I proletari sono la stragrande maggioranza della popolazione e le loro lotte fanno avanzare le cose. Tuttavia la maggior parte degli esponenti della sinistra ancora non analizzano criticamente le lotte che effettivamente stanno avvenendo, ma per un riflesso immediato sollevano invece la questione della ‘coscienza di classe’. Costoro immaginano un proletariato organizzato in un partito e in un sindacato, situazione che non esiste ormai più dagli anni 1950.
“Che altro dobbiamo aspettare?” questa la domanda polemica presentata in un articolo in Wildcat-Zirkular no.65.
“L’emergere di organizzazioni mondiali proletarie? Scioperi di solidarietà? Imitatori pedissequi dei movimenti del passato? Un movimento politico diffuso in tutto il mondo? Il nuovo e interessante fenomeno riguardante la rivoluzione mondiale è il fatto stesso che nessuno detiene parametri, criteri o anche risposte per affrontare questa domanda. Uno dei criteri potrebbe essere verificare se delle comunità si sviluppano durante le diverse lotte - e fino ad ora questo non sembra essere il caso. I lavoratori lottano, ma non lottano insieme ... Piuttosto è vero il contrario: i lavoratori lottano, ma combattono solo per se stessi, e solo contano sulle proprie forze. E nemmeno stanno ad aspettare l’aiuto dei loro colleghi dell’impresa vicina!” 27
I lavoratori ignorano le vecchie organizzazioni e i vecchi partiti; ma nuove organizzazioni e nuovi partiti non sono ancora venuti alla ribalta. Non esiste ancora alcuna idea di una nuova società, che faccia presa sulle masse. Però, nelle lotte stesse possiamo vedere alcuni nuovi sviluppi interessanti. In Asia e oltre, i lavoratori hanno dimostrato straordinarie capacità di organizzare le loro lotte e di coordinarsi oltre i confini delle rispettive regioni. Loro hanno capito che si può vincere solo collettivamente. Sollevano richieste egualitarie contro le divisioni che il Capitale ha introdotto. Non permettono di essere frenati dai sindacati, che vogliono solo mantenere il controllo sulla classe lavoratrice. Non rifuggono dagli scontri duri. Essi affrontano e creano problemi per i quali il sistema non ha soluzioni.
Nelle loro lotte i lavoratori entrano in conflitto con un sistema sociale che non ha niente da offrire alla grande maggioranza, a parte politiche di austerità - un sistema che non è più in grado di trasformare le lotte in ‘sviluppo’ sociale ed economico. Questo è un sistema sociale che orienta la rotta verso la sua prossima caduta, sotto la guida della sua ‘ultima superpotenza’, che combatte contro la sua scomparsa economica e politica con tutti i mezzi necessari. La più forte potenza militare del mondo non è più in grado di vincere le guerre, per non parlare di creare nuovi Stati stabili, ma può solo distruggere. Così facendo, questa potenza minerà ulteriormente la legittimità di questo ordine mondiale e riuscirà a mobilitare sempre più persone contro se stessa.
Chi darà una direzione ai prossimi scontri sociali? Forse le classi medie mondiali, che seguono mobilitazioni nazionaliste per paura di perdere i loro benefici sociali acquisiti? O il proletariato mondiale, il cui lavoro assicura a queste classi ricchezza e potere ? L’intelligenza collettiva del proletariato ribelle è superiore agli esperti meschini delle istituzioni; la capacità dei proletari di organizzare la produzione e di auto-organizzarsi è in grado di garantire la fornitura di beni e servizi necessari per le persone - i vari movimenti delle piazze e contro i grandi progetti infrastrutturali hanno dimostrato questo. I Proletari costituiscono l’unica forza che può contrastare la potenza distruttiva del Capitale.
In Wildcat abbiamo spesso espresso la speranza di un ‘incontro tra movimento operaio e movimento sociale’ - al fine di definire il ruolo della sinistra social-rivoluzionaria. Se si trattasse solamente di un’aggregazione di forze, il che non recherebbe danno a nessuno, un ‘fianco-a-fianco’ sulle ‘piazze’, in un clima di reciproca indifferenza, questo non potrebbe incidere nel futuro - se vogliamo ottenere che le cose vadano avanti.
Un nuovo soggetto rivoluzionario non sarà solo il risultato d i un processo di ‘omogeneizzazione’ (ancor meno di un’ ‘alleanza!’), ma piuttosto di processi di polarizzazione - e di divisione, all’interno della classe operaia. La discussione e la pratica politica della sinistra dovranno affrontare queste problematiche.
Translated by Curzio Bettio(tlaxcala-int.org), originale here and here.
[1] "Vom Klassenkampf zur 'sozialen Frage'" [“Dalla lotta di classe alla ‘questione sociale’], Wildcat Zirkular 40/41
[2] "Vom schwierigen Versuch, die kapitalistische Krise zu bemeistern" [“Sul difficile tentativo di affrontare la crisi capitalista"], Wildcat Zirkular no.56/57, maggio 2000
[3] Nota: Non è di semplice traduzione il termine tedesco "Umwälzung". Questo può significare transizione, trasformazione, capovolgimento, in alcune circostanze rivoluzione – in definitiva: cambiamento radicale.
[4] "Vollendung": suggerisce indirettamente ‘completamento’ e ‘fine’
[5] "Globalize it!", prefazione a Wildcat-Zirkular 38, luglio 1997
[6] "Asien und wir" [“Asia e noi”], Wildcat-Zirkular no. 39, agosto 1997
[7] "Open letter to John Holloway", Wildcat-Zirkular no.39, agosto 1997
[8] "Die neuen Arbeitsverhaeltnisse und die Perspektive der Linken" [“Le nuove relazioni nel mondo del lavoro e le prospettive della sinistra”], Wildcat-Zirkular 42/43, marzo 1998
[9] "Chiapas und die globale Proletarisierung" [“Chiapas e la proletarizzazione globale”], Wildcat-Zirkular no.45, giugno 1998
[10] "Historical Capitalism", Immanuel Wallerstein, 1983
[11] "Forces of Labor - Workers' movements and globalization since 1870", Beverly Silver, 2003
[12] Peter Dicken, “Global Shift, Mapping the changing contours of the world economy”(Cambiamento Globale, Rilevamento dei mutevoli contorni dell’economia mondiale), sesta edizione, 2011
[13] Göran Therborn, 'Class in the 21st Century', NLR 78, 2012
[14] ‘Beyond the peasant international’,[Al di là dell’internazionale contadina], Wildcat no.82, autunno 2008http://www.wildcat-www.de/en/wildcat/82/w82_bauern_en.html
[15] Samir Amin, ‘The implosion of contemporary capitalism’,[L’implosione del capitalismo contemporaneo], New York, 2013
[16] Isabel Ortiz, Sara Burke, Mohamed Berrada, Hernan Cortes, ‘World Protests 2006 – 2013’,[Movimenti di protesta nel mondo 2006-2013], FES New York Office, 2013
[17] Confrontare l’articolo su Hong Kong del Mouvement Communiste:http://mouvement-communiste.com/documents/MC/Letters/LTMC1439%20ENvG.pdf
[18] Wildcat no.90, estate 2011
http://www.wildcat-www.de/en/wildcat/90/w90_in_our_hands_en.htm
[19] Joerg Nowak, ‘Fruehling der globalen Arbeiterklasse. Neue Streikwelle in den BRICS-Staaten’,[Primavera della classe operaia mondiale. Nuova ondata di scioperi negli Stati BRICS],Sozialismus 6-2014‘Massenstreiks und Strassenproteste in Indien und Brasilien’,[Scioperi di massa e proteste nelle strade in India e Brasile], Peripherie 137, 2015‘Massenstreiks in der globalen Krise’,[Scioperi di massa nel quadro della crisi mondiale], Standpunkte 10/2015, online da rosalux.deTorsten Bewernitz, ‘Globale Krise - globale Streikwelle? Zwischen den oekonomischen und demokratischen politischen Protesten herrscht keine zufaellige Gleichzeitigkeit’.[Crisi globale-ondata di scioperi mondiale?Tra i moti di protesta di natura economica e quelli per una democrazia politica non esiste assolutamente alcuna fortuita coincidenza], - Prokla 177, 12/2014Dorothea Schmidt, ‘Mythen und Erfahrungen:die Einheit der deutschen Arbeiterklasse um 1900.’ [Miti ed esperienze: l’unità della classe operaia tedesca attorno al 190], - Prokla 175, 6/2014
[20] Beverly Silver vede verificarsi la sua tesi dall’ondata di lotte del 2010: il trasferimento di capitali verso la Cina ha creato una nuova e crescente classe operaia combattiva. La Silver pensa ancora secondo categorie di movimenti periodici: Creare – Distruggere – Ricreare la classe operaia, e attualmente il pendolo sta oscillando all’indietro. Secondo la Silver, in questo periodo storico non è possibile, e nemmeno auspicabile che il Capitale risponda a queste lotte mettendo in gioco una qualsiasi forma di partenariato sociale keynesiano. Beverly Silver, ‘Theorising the working class in twenty-first-century global capitalism’,[Teorizzazione sulla classe operaia nel capitalismo del ventunesimo secolo], in: ‘Workers and labour in a globalised capitalism’[Lavoratori e movimento operaio in un capitalismo globalizzato], (Palgrave Macmillan); edito da Maurizio Atzeni (2014) http://krieger.jhu.edu/arrighi/research/socialprotest
[21] vedi l’articolo sulla Cina nel numero 98 di Wildcat, estate 2015 [non disponibile traduzione in inglese]
[22] In Germania, solo i lavoratori della Daimler, a Brema, hanno tentato di reagire contro i piani della direzione, che prevedevano di esternalizzare la produzione verso ‘fornitori di servizi’. Questi lavoratori hanno portato avanti uno sciopero selvaggio, ma non sono stati in grado di stoppare la manovra padronale.
[23] E.P. Thompson, ‘The making of the English working-class’,[La formazione della classe operaia inglese], 1963
[24] ‘Die zwei grossen Gefahren’ [I due grandi pericoli], conversazione con Gaspar Miklos Tamas, giugno 2015
[25] Global Labour Journalwww.escarpmentpress.org/globallabourGlobal Labour Institutewww.globallabour.infoGlobal Dialoguewww.isa-global-dialogue.net/volume-4-issue1/
[26] Comitato Invisibile “ Ai nostri amici”“Per dirla platealmente: finché non saremo in grado di fare a meno di centrali nucleari e di smantellarle, e queste costituiranno un affare per coloro che vogliono la loro durata eterna, aspirare ad abolire lo Stato continuerà a fare sorridere; fino a quando la prospettiva di una rivolta popolare significherà piombare sicuramente in una pesante penuria di assistenza sanitaria, di cibo, o di energia, allora non ci sarà un forte movimento di massa ... Ciò che determina il lavoratore non è il suo sfruttamento da parte di un padrone, sfruttamento che condivide con tutti gli altri salariati. Ciò che lo distingue in senso positivo è la sua maestria tecnica, incarnata, di un particolare mondo di produzione. Esiste in questo una competenza che è scientifica e popolare al tempo stesso, una conoscenza appassionata che costituiva la ricchezza speciale del mondo del lavoro prima che il Capitale, realizzando il pericolo insito in tutto ciò, e non prima avere deliberatamente sussunto tutta questa conoscenza, decidesse di trasformare i lavoratori in operatori, controllori e custodi di macchinari. Ma anche così, il potere dei lavoratori rimane: chi conosce come gestire un sistema operativo anche sa come sabotarlo in modo efficace. Comunque, nessuno può dominare singolarmente l'insieme delle tecniche che consentono all'attuale sistema di riprodursi. Solo una forza collettiva può farlo.... In altre parole: noi abbiamo bisogno di riprendere un lavoro impegnativo e meticoloso di indagine. Abbiamo bisogno di andare a cercare in ogni settore, in tutti i territori dove abitiamo, coloro che possiedono conoscenze tecniche strategiche. Solo su questa base i movimenti potranno osare il “blocco totale”.
[27] ‘Das Ende der Entwicklungsdiktaturen’ [La fine delle dittature sviluppiste], Wildcat-Zirkular no.65, febbraio, 2003