Stiamo entrando in una situazione storica mondiale nella quale tutti i meccanismi di scambio tra vita politica e vita socioeconomica sono disposti in modo nuovo. Per la mia generazione, questo sarà il secondo mutamento d'epoca dopo il periodo 1967-1973. Tutti i fatti e gli indicatori principali delle trascorse settimane suggeriscono l'inizio di una crisi economica mondiale che sorpassa sin da ora il livello raggiunto da quella del 1973 e dalle crisi intermedie del 1982 e del 1987. La crisi attuale si sta avvicinando alle dimensioni della crisi mondiale e della depressione che ne è seguita negli anni tra il 1929 e il 1938.
Come dobbiamo reagire a fronte di una simile sfida gigantesca? Questa è ormai la domanda decisiva. Per questo ho completamento riscritto un saggio sul quale stavo lavorando e che avevo impostato come una replica alle critiche indirizzate alle mie ipotesi sulla «condizione del mondo» nel 2005. Presento qui i pensieri e i risultati della ricerca che ho prodotto sinora; lo stato è provvisorio, si tratta di una sintesi, perché tali risultati dovranno essere rivisti, corretti e ampliati in un dialogo costante prima della pubblicazione del libro. Vi sono compresi i primi risultati della discussione tenutasi il 27 novembre alla Schorndorf Manufaktur, le conclusioni del dibattito collettivo della lista Wildcat, gli esiti di un seminario dell'Interventionistische Linke del 13 dicembre, nonché i risultati di diverse discussioni che ho intrattenuto con alcuni amici. In questo modo, molti punti deboli, cose poco chiare e difetti, sono stati superati. E tuttavia, a causa della mancanza di tempo, sarò in grado di occuparmi di alcune obiezioni solo scrivendo il libro. Confido, perciò, nella vostra comprensione. Spero che le mie tesi saranno pur sempre sufficienti per chiarire le basi dell'approccio analitico delle mie proposte concettuali. Ringrazio tutti coloro che hanno preso parte al dibattito, non solo per l'aiuto che mi hanno dato con le loro critiche, ma anche per il grande incoraggiamento ricevuto: erano anni che non prendevo parte a un dialogo così ampio, costruttivo e solidale.
La prima crisi economica mondiale del XXI secolo è iniziata nel 2006, come crisi strutturale, crisi di iperproduzione in particolare dell'industria dell'auto e come crisi immobiliare in Usa, in Gran Bretagna, in Irlanda e in Spagna. Essa ha segnato la fine di sei anni di incredibile boom globale, che avrebbe dovuto portare a un'ulteriore espansione delle relazioni tra capitali, con tutti i suoi classici effetti collaterali, ma anche con alcuni nuovi effetti speculativi: uno sviluppo che non era ancora stato ritenuto possibile. I prezzi esorbitanti di case, appartamenti, e altri beni, sono scesi rapidamente e questo decadimento ha compromesso sempre più il valore dei mutui e dei loro derivati relativi a tali proprietà. Le tre imprese dell'auto americane, oltre ad alcune europee e giapponesi, hanno subito inoltre un deciso calo delle vendite e questo ha marcato l'inizio di una crisi di scala mondiale per il settore della produzione industriale col maggior tasso di capital-intensive.
La crisi ha iniziato a invadere il settore finanziario tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007. Il calo nei prezzi delle proprietà immobiliari ad uso privato e commerciale si è esteso fino a diventare una crisi mondiale del credito. Le banche ipotecarie locali sono andate in rosso dopo gravi perdite e nel giugno 2007 la banca d'affari americana Bear Stearns ha dovuto liquidare due dei suoi hedge fund, cosa mai accaduta prima. Poiché molti dei crediti ipotecari americani sono stati compresi all'interno di crediti derivati (Collateralized Debt Obligations = CDO) venduti a tutto il mondo, la caduta del loro prezzo e il conseguente aumento dei premi di rischio hanno prodotto una reazione a catena globale, che è finita col sovrapporsi alla crisi creditizia in Gran Bretagna, in Irlanda e in Spagna. La crisi dei subprime ha toccato la sua prima vetta nell'estate del 2007. Il suo carattere globale si è fatto repentinamente chiaro quando si sono intraprese azioni per sostenere le banche a rischio di collasso che si trovavano alla periferia di quanto stava accadendo, mentre le distorsioni che avevano generato la loro situazione avevano origine negli epicentri anglosassoni della crisi vedi il caso della mancanza di liquidità della D¨sseldorf Internationale Kreditbank (IKB) o della Sächsische Landesbank (SachsenLB), ma anche gli enormi deficit e perdite commerciali della «banca universale» svizzera UBS [2]
A partire da una serie di cinque o sei onde d'urto, cominciate nell'estate 2007, la crisi del credito si è fatta poi crisi finanziaria mondiale. A settembre 2008 aveva ormai invaso l'intero sistema bancario. La banca d'affari americana Bear Stearns e la banca inglese (leader nei mutui) Northern Rock sono crollate nel marzo 2008. A seguire, dopo i primi interventi di soccorso tedeschi dell'anno precedente, anche gli Usa e il Regno Unito hanno attuato per la prima volta interventi pubblici su vasta scala. Northern Rock ha ricevuto una completa garanzia di sostegno da parte dello stato, mentre Bear Stearns è stata rilevata dalla «banca universale» JP Morgan Chase, e la Federal Reserve Bank (Fed), la banca centrale americana, ha organizzato lo scorporo e il rifinanziamento delle azioni entrate in ribasso.
A settembre un nuovo shock: all'inizio del mese le due più grandi banche americane che concedono mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, sono state salvate dal collasso e ricapitalizzate attraverso un ampio sostegno di stato. A ciò ha fatto seguito il fallimento della banca d'investimento Lehman Brothers a metà del mese, mentre la banca d'investimenti Merril Lynch è stata salvata con una vendita d'emergenza alla «banca universale» Bank of America. E tuttavia, nel corso dei mesi successivi, non sono state solo le banche d'investimenti a ricevere colpi letali e a sparire di scena trasformandosi in (o fondendosi con) banche commerciali. Anche compagnie assicurative di primo piano erano sotto minaccia, come dimostrato dalla contemporanea rovina della maggiore compagnia assicurativa degli Stati Uniti, l'American International Group (AIG). Sono stati soprattutto specifici crediti derivati (Credit Default Swaps = CDS) ad entrare in sofferenza. I CDS di solito vengono usati da chi acquista bond a livello mondiale per assicurarsi in contratti bilaterali fuori mercato contro il rischio d'insolvenza di chi li emette. Poiché non vi è nessuna controparte centrale e i contratti CDS non sono soggetti alla regolamentazione tradizionale di riassicurazione, sono associati a un alto rischio. Sinora, nel mondo sono stati distribuiti CDS per un valore di almeno 60 trilioni di dollari; ciò che potrebbero condurre a una fatale reazione a catena qualora una delle loro colonne principali, come AIG, dovesse fallire. Infatti, AIG è stata sostenuta da una serie di contributi governativi, che hanno sinora raggiunto i 153 miliardi di dollari. Ciononostante, nel settembre 2008, l'effetto della crisi del credito su un elemento chiave del mercato globale dei derivati un mercato il cui volume è stimato tra un minimo di 600 e un massimo di 1000 trilioni di dollari ha mostrato che il settore finanziario la forza trainante decisiva del ciclo precedente di espansione era diretto verso l'abisso. Nel settembre 2008 ha tremato l'intero sistema finanziario internazionale e, in particolare, le banche commerciali e i fondi d'investimento che negli anni '70 erano già stati colpiti in egual misura (hedge fund, fondi di private equity e fondi pensione).
Le onde d'urto continuano inalterate fino ad oggi, come risulta evidente nei pesanti deficit e nelle perdite operative maturati praticamente da tutte le banche di rilevanza mondiale. Le garanzie dei governi per i crescenti toxic assets a deposito, le iniezioni di capitale pubblico a copertura del capitale delle banche, e l'aumento della partecipazione statale nel settore finanziario, sono misure di salvataggio adottate praticamente in tutti i paesi industrializzati e che molto probabilmente continueranno ad essere nell'agenda dei governi. Fin dall'estate 2007, i governi hanno cercato di far andare avanti i mercati monetari e finanziari attraverso tagli ai tassi d'interesse coordinati dalle banche centrali, con iniezioni di liquidità nei mercati interbancari crollati, e tramite il recupero di azioni e di titoli di credito all'interno della sfera di regolazione pubblica. Come mostrano i dati più recenti, non è stato finora possibile fermare il prosciugamento mondiale del debito e il volo degli azionisti dai fondi finanziari ai «porti sicuri» di valute e bond statali forti. La ragione è semplice: le perdite sui mutui e sui crediti derivati vengono seguite dal debito, sempre più folle, di carte di credito, leasing, e carte di credito al consumo fidelizzate; un debito la cui dimensione è in gran parte ancora ignota, ma che di fatto ha già portato al crollo di Citigroup, la più grande banca commerciale americana. All'orizzonte non si profila certo la fine della crisi finanziaria e del credito; e questo in una situazione nella quale la crisi del settore strutturale e industriale, iniziata in parallelo, peggiora, diffondendo così una lenta fiamma che colpisce tutte le parti del sistema economico.
Al seguito della contrazione del credito e della fuga dei capitali, gli eventi del trimestre «nero» tra settembre e novembre 2008 hanno raggiunto i mercati finanziari di tutto il mondo; in particolare, quei settori della produzione di capitale in cui i crediti a lungo termine vengono scambiati come azioni di impresa (opzioni, prestiti e futures). Il crollo delle azioni ha dapprima trascinato con sé i prezzi di mercato delle società strutturalmente deboli, specialmente nell'industria dell'auto, per poi diffondersi a tutti i capitali quotati in borsa. Fin dall'inizio del 2008, gli indici dei mercati azionari americani, europei e giapponesi sono scesi in media del 35-40%. L'agitazione di settembre e di ottobre ha evocato le crisi economiche mondiali del secolo scorso. In autunno le borse dei paesi emergenti hanno iniziato a sentire in pieno l'effetto della crisi: le perdite di capitali sono aumentante tanto rapidamente da eliminare qualsiasi sopravvalutazione speculativa, dando inoltre luogo a una fase di enorme distruzione di valore. Le borse dei cosiddetti stati del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) stanno registrando perdite del 60-70% da un anno all'altro.
Un terzo fattore decisivo nella caduta in direzione della crisi economica mondiale è stato il crollo dei prezzi dei beni primari, iniziato nel luglio 2008 dopo un altro enorme aumento dei prezzi dei beni alimentari e dell'energia. Un crollo che ha segnato, quasi in termini classici, il passaggio dalla bolla speculativa alla crisi vera e propria. Attualmente, il prezzo del greggio è sceso dal suo prezzo massimo (147 dollari al barile) al di sotto dei 40 $, i prezzi dei metalli industriali e delle materie prime usate in agricoltura (cotone ecc.) si sono dimezzati, mentre il prezzo di alimenti fondamentali (riso, mais, frumento) è sceso di circa un terzo. I metalli preziosi riescono ancora a mantenersi stabili sui mercati dei future delle merci, e tuttavia anche il prezzo dell'oro ha mostrato di essere tendenzialmente in declino.
Tenendo presenti questi sviluppi, non sorprende affatto che anche i costi dei trasporti siano scesi vertiginosamente, dato che in molti casi essi sono un elemento importante dei prezzi delle merci primarie. Nello specifico, il trasporto marittimo, essendo il mezzo principale nella catena mondiale dei trasporti, ha sofferto tendenze deflative, con prezzi ampiamente scesi al di sotto dei costi in alcuni settori, e che si sono spinti persino oltre, per quanto riguarda mole e velocità del declino, se li si compara ai dati delle crisi economiche mondiali del secolo scorso. Le tariffe della Rotterdam-Taiwan Lines sono scese dai 2.500 dollari a container dell'inizio dell'anno ai 400 di ottobre, e a novembre le tariffe di trasporto delle navi più grandi per carichi pesanti sono scese fino a un undicesimo del loro prezzo massimo raggiunto nel corso del boom del 2007. Questo non solo fa ulteriormente scendere il prezzo delle merci, ma induce nel contempo altre conseguenze significative. Le catene dei porti marittimi e di logistica, predisposte in vista di una enorme espansione della produzione e delle infrastrutture sino a quest'estate, sono state scosse sin dalle fondamenta e nelle scorse settimane almeno l'80% dei contratti per la costruzione di navi dei cantieri navali leader in Cina, Corea del Sud, Giappone e Vietnam sono stati cancellati.
Parallelamente, la crisi strutturale e di sovrapproduzione dei settori dell'automobile, dell'edilizia, e immobiliari è andata estendendosi. Due delle «tre grandi» industrie automobilistiche americane la General Motors e la Chrysler sono sull'orlo della bancarotta. La settimana prima di Natale, garantendogli un credito d'emergenza, l'amministrazione Bush ha concesso loro una proroga fino a marzo 2009. Contemporaneamente, quanto storicamente conquistato dai lavoratori dell'industria automobilistica americana viene spazzato via. La crisi del settore si è ormai estesa all'intera industria dell'auto. Per le stesse società «modello» a produzione intensiva e tecnologicamente innovativa, in grado di produrre a basse emissioni, il giro d'affari mondiale è calato del 20-30%. Nella maggior parte dei casi, i lavoratori interinali e a contratto sono già scomparsi dalle fabbriche, mentre il personale regolare è stato mandato in vacanza a Natale per un periodo prolungato e con la prospettiva di veder dilatato il periodo di lavoro ad orario ridotto. Ai livelli inferiori dell'industria automobilistica si cercano invano soluzioni temporanee di quel tipo e si accumulano le notizie di improvvisa chiusura di piccoli e medi fornitori.
Tutte queste tendenze si intensificano l'una con l'altra, universalizzandosi in rapporto all'aumento su scala mondiale del costo del credito. Sin dal primo quarto del 2008, tre regioni della «triade», Usa, Europa e Giappone, sono entrate in recessione. La disoccupazione di massa è aumentata enormemente negli Usa, nel Regno Unito e in Spagna e sta ora estendendosi dalla regione transatlantica a tutte le economie nazionali sviluppate. Le sue controparti economiche sono i tassi d'interesse e di profitto in calo che, assieme al crescente costo del credito e alla rapida diminuzione degli ordini, hanno portato a una drastica riduzione del piani di investimento. A sua volta, ciò causa una rapida contrazione delle esportazioni. E i paesi della triade che esportano di più Giappone, Germania e Svizzera reagiscono alla perdita nell'export con una sproporzionata riduzione nell'import, avviando perciò una spirale autolesionista di declino economico mondiale.
A causa di queste enormi restrizioni dell'import, la crisi della triade, ora pienamente sviluppata, ha investito, a partire dall'ottobre 2008, le economie emergenti e in via di sviluppo. Questi eventi le colpiscono in un momento in cui il loro sviluppo economico dipende in primis dalle esportazioni verso le regioni della triade, con gli squilibri economici ad esse associati che vengono compensati (o, almeno, lo sono stati sino a questo punto) dall'accumulazione di vaste riserve di valuta estera. Questo labile equilibrio è improvvisamente venuto meno. La contrazione del credito nell'economia mondiale, il crollo del valore delle azioni e delle materie prime, assieme alle perdite nel settore delle esportazioni, si sono mescolati in una miscela esplosiva, che è rimasta temporaneamente inerte solo grazie al riscorso alle riserve valutarie e all'aumento del debito nazionale.
Ma gli stati del BRIC non sono gli Usa, e ancor meno le «economie» emergenti di seconda categoria, come Messico, Corea del Sud, Indonesia, Ungheria o Ucraina. Gli Usa, grazie alla loro valuta mondiale di riferimento ancora senza pari, possono permettersi un gigantesco deficit nella bilancia dei pagamenti e montagne di debito senza doverne rendere conto ai propri creditori. Gli investitori internazionali hanno trasferito i loro capitali non appena le riserve valutarie delle economie emergenti sono andate diminuendo, la loro bilancia dei pagamenti è perciò peggiorata e il loro deficit di bilancio è aumentato. Ne sono seguite enormi svalutazioni, che hanno provocato una turbolenza esplosiva nel mercato valutario internazionale. A ciò si aggiunge il fatto che, soprattutto per quanto riguarda le economie del Sud Est Asiatico, sudamericane e dell'Europa centro-orientale, si stanno progressivamente facendo visibili deficit strutturali e costellazioni di iper-indebitamento multilaterali. A partire dall'autunno scorso, ciò ha causato le prime bancarotte nazionali de facto, che hanno colpito Ungheria, Pakistan, Lituania e Ucraina, nonché l'Islanda. In tali paesi, le conseguenze sociali di questa situazione stanno drammaticamente acuendosi. Ma anche negli Usa interi quartieri stanno «chiudendo i battenti» a causa dello sgombero delle famiglie dalle loro case e dai loro appartamenti in affitto.
Da un punto di vista globale, una tremenda caduta del prodotto interno lordo è stata finora evitata solo grazie all'enorme fornitura politica di supporto finanziario da parte dei paesi e dei blocchi di potere del centro capitalistico (nell'ordine di un minimo stimato di 7 trilioni di dollari) e dalla diffusa adozione di misure anti-cicliche (Cina, Ue, Usa e Giappone). La stessa turbolenza valutaria è stata tenuta abbastanza sotto controllo, col dollaro rimasto finora sorprendentemente stabile, anche se la situazione potrebbe cambiare molto rapidamente. È questo il presupposto perché l'asse strategico debitore-creditore del sistema mondiale, quello cioè che coinvolge Cina e Usa, continui a funzionare. Nondimeno, la crisi ha già superato la scala della crisi del 1973, e introdurrà un nuovo ciclo di sfruttamento e una nuova era del sistema capitalistico mondiale, anche qualora, nei prossimi mesi, essa venisse arginata con successo. Una stabilizzazione sul breve periodo è, tuttavia, piuttosto improbabile. Una prima fase di interventi politici di salvataggio finanziario legata al pensiero monetarista è fallita, perché ricalcava troppo letteralmente le conclusioni di Milton Friedman, l'ideatore della controrivoluzione economica. Questi aveva imputato la crisi del 1929 quasi esclusivamente a politiche sbagliate della Fed. Lo sciopero del credito e degli investimenti dei proprietari di capitale, dei manager bancari e dei fondi di investimento che stanno sotto il loro controllo, non possono essere fermati con una politica di offerta di denaro a buon mercato o con l'inondazione dei mercati creditizi e finanziari con liquidità a interessi zero. Non è affatto chiaro se i piani di ripresa economica, che sono almeno in parte keynesiani, sortiranno effetto alcuno. Essi non sono stati globalmente adottati e avrebbero bisogno di essere estesi e resi più veloci, soprattutto da parte dei principali paesi creditori e esportatori (Giappone, Cina, stati della zona euro). L'incorporamento più o meno totale di credito «tossico» e di debiti privati nel bilancio pubblico non impressiona certo gli investitori, se i fallimenti e gli errori strategici dei manager bancari e fondiari, ora diventati pubblici, restano senza conseguenze e vengono spinti sotto il tappeto. Non solo. Tutto ciò si limita a ritardare il meccanismo della crisi, senza tuttavia bloccarlo. Gli azionisti hanno spesso considerato la Fed un enorme hedge fund per il quale il Tesoro degli Stati Uniti procura le risorse necessarie, assumendo il ruolo di un gigantesco broker di investimento. È solo una questione di tempo, prima o poi riterranno lo «Zio Sam» non più degno di credito. Dove potranno investire a quel punto? Attualmente non ci sono nuovi settori economici strategici in vista e la speranza che le economie emergenti possano risolvere i guai sulle orme dei loro precursori che il creditore strategico degli Stati Uniti, la Cina possa trascinare fuori dal fango il carro si è ormai dissolta.
Ci siamo assunti l'onere di mostrare come i vari fattori della crisi in questo nuovo ciclo si stiano lentamente sincronizzando. Ma quali sono state le cause della lenta fiamma accesasi due anni fa sui tetti del complesso degli edifici economici mondiali e che ha ormai raggiunto tutti i settori e i territori del circuito economico globale? Un breve sguardo ai punti di incidenza di questo processo mostra che essi possono essere ricondotti a tre caratteristiche principali. Primo, l'attuale è una crisi di sovra-accumulazione di capitale su scala mondiale in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue metamorfosi: le industrie produttive sono sovra-accumulate in media del 25% (molto di più nell'industria dell'auto), la catena dei trasporti mondiale del 30-35%, il settore bancario e finanziario almeno del 50%. In secondo luogo, questa sovra-accumulazione fa il paio con un esorbitante sotto-consumo globale causato, durante lo scorso ciclo, dalla colossale riduzione capitalista del reddito di massa al centro; fa il paio col suo tasso di crescita sopra la media sulla base dei salari più bassi esistenti nei mercati emergenti; si abbina alla politica di abbandono alla povertà di massa del Sud (slum, economie sotterranee) e ad uno stato di imminente genocidio per fame. Nonostante le classi disagiate delle regioni sviluppate dove la crisi è cominciata siano riuscite a compensare le loro perdite di reddito con tecniche differenziate di indebitamento, i segmenti più bassi della loro composizione ne sono stati costantemente esclusi. Al confronto con l'ampio aumento nella forza produttiva del lavoro sociale, la differenza tra sviluppo delle forze produttive e reddito ha continuato ad acuirsi, con grande svantaggio delle classi lavoratrici, anche negli Usa, in Gran Bretagna e in Spagna. Terzo, una politica di credito a buon mercato ha compensato il gioco di scambio tra sovrapproduzione e sotto-consumo nei centri sviluppati del mondo, e tuttavia ciò ha potuto solo ritardare la crisi di qualche anno. Mentre i settori a basso salario si espandevano e la precarizzazione delle condizioni di lavoro finiva col toccare sempre più anche le classi medie, milioni di persone in tutto il mondo si sono indebitate per una cifra che gira intorno ai 12 trilioni di dollari (mutui insoluti, debiti di carte di credito, debiti per acquisti a rate e leasing, prestiti d'onore agli studenti ecc.). Questo meccanismo ha potuto funzionare tanto a lungo perché il debito immesso dalle classi più disagiate era diversificato su scala mondiale. Esso ha però raggiunto il suo apice nel corso del 2006 e ha trascinato a maggior ragione il sistema finanziario nell'abisso. Il meccanismo ha dunque rafforzato le storture strutturali già esistenti e sostenuto la sovrapproduzione nei settori economici chiave (l'edilizia, l'industria dell'auto e il loro indotto, ma anche la tecnologia dell'informazione e l'industria dell'acciaio). E, insieme al crollo dei prezzi delle merci primarie, nel settore della circolazione e sui mercati borsistici, e congiuntamente con le crescenti restrizioni al credito, ha causato la nuova crisi economica mondiale. Ne è conseguito uno sciopero mondiale negli investimenti da parte degli azionisti, che interessa ormai tutte le principali sfere di capitale, perché i loro tassi d'interesse e di profitto sono andati precipitando l'uno dopo l'altro in pochi mesi.
Per avere un'idea più chiara delle dinamiche interne, delle prospettive di sviluppo e delle possibili conseguenze dell'attuale crisi economica mondiale, dobbiamo richiamare brevemente le principali caratteristiche del ciclo globale precedente, tra il 1973 il 2006. Al principio, dobbiamo limitarci a questo ciclo.
Il ciclo è iniziato nel 1973, con la crisi economica mondiale, che ha portato a una depressione durata diversi anni. Questa crisi era stata causata dalle rivolte sociali degli operai di tutto il mondo tra il 1967 e il 1973, oltreché da una crisi valutaria mondiale (sganciamento del dollaro dall'oro, transizione verso tassi di scambio flessibili) e dallo shock petrolifero del 1973 (guerra dello Yom Kippur). Negli anni successivi, tale crisi si è venuta trasformando in un cosiddetto processo stagflativo, dovuto al massiccio uso di politiche inflazionistiche contro la rigidità salariale delle classi lavoratrici. Nel corso dei 35 anni che sono seguiti, si è determinata una serie di cicli quinquennali, interrotti da crisi parziali, alcune delle quali piuttosto serie: 1982 (seconda crisi petrolifera), 1987 (Usa), 1992/93 (Giappone), 1997/98 (Sud Est Asiatico e Russia), e 2000/01 (crac della «New Economy»). Una pausa decisiva c'è stata tra il 1989 e il 1991, con l'implosione dell'Impero Sovietico e l'inizio dell'ascesa cinese. Senza l'improvvisa e potente spinta espansionistica che questi eventi hanno prodotto, l'ultima «onda lunga» sarebbe giunta a termine molto prima. L'espansione del credito nel periodo congiunturale tra il 2001 e il 2006, inoltre, si è sovrapposta all'interazione reciproca tra sovra-accumulazione e reddito di massa decrescente, ritardando di diversi anni l'insorgenza della crisi.
L'attacco del capitale sotto forma di «crisi» ha costretto la classe operaia di tutto il mondo alla ritirata fino alla fine degli anni '70. Nonostante le accanite lotte di classe degli anni '80, la classe operaia ha subito evidenti processi di (ri)proletarizzazione, tanto nelle zone periferiche, quanto nelle economie emergenti e nei centri più sviluppati. Entrerò più nel dettaglio in seguito. Ciò che ci interessa qui sono le conseguenze economiche di tutto questo: il reddito di massa è diminuito in termini sia relativi sia assoluti in rapporto al capitale e all'accumulazione capitalista, e questo processo è stato spinto fino alla fine del ciclo da una sistematica strategia di sotto-occupazione. I centri di attività del capitale sono riusciti a mietere ampi profitti ed elevati interessi durante le fasi cicliche di boom, a dispetto delle momentanee ricadute regionali e delle feroci lotte costituenti della nuova classe del lavoro industriale in alcune economie emergenti (in particolare in Corea del Sud e in alcuni paesi sudamericani). La repressione e lo smisurato sfruttamento della classe operaia, la pauperizzazione di alcune delle sue componenti più importanti, consegnate ad una situazione di «povertà lavorativa», erano state caratteristiche fondamentali dell'onda lunga precedente, nonostante le tendenze che lavoravano in senso contrario. Esse erano però state anche la causa del collasso dell'onda. Un collasso ritardato solo dal boom creditizio dei primi «pazzi» dieci anni del nuovo millennio.
Un ulteriore fattore endogeno decisivo è stato il rafforzamento del dominio tecnologico del capitale. L'«onda Kondratieff» del ciclo 1973-2006 ha aiutato il capitale ad accrescere il suo tasso di profitto attraverso massicce innovazioni tecnologiche, che hanno abbassato la composizione organica del capitale nelle aree strategiche (con una progressiva riduzione dei tassi di salario): trasformazione e standardizzazione della catena dei trasporti grazie al container, modifica delle strutture comunicative grazie all'informatica e alle tecnologie dell'informazione, micro-miniaturizzazione e robotizzazione degli impianti produttivi, conversione del parco macchine in apparecchiature a controllo numerico. Sino ad ora non ci sono ancora dati certi sul livello raggiunto nel ciclo precedente dal tasso di sfruttamento per mezzo dell'ulteriore intensificazione dei processi lavorativi, dell'introduzione di nuovi strumenti tecnologici di sussunzione reale, della messa al lavoro e della valorizzazione della creatività soggettiva degli sfruttati, della totalitarizzazione organizzativa del potere di impresa («management totalmente produttivo» ecc.). Possiamo però star certi che la produttività totale dell'operaio sociale sottratta al processo di redistribuzione è almeno raddoppiata nel ciclo precedente, con un tasso di crescita annuale tra il 2,5 e il 3%,
Come fattore esogeno decisivo lo abbiamo già accennato poco sopra va annoverata l'espansione degli investimenti e dei mercati, la quale ha raggiunto il suo culmine agli inizi degli anni '90. Il figlio di uno straccivendolo di Calcutta, tanto per fare un esempio, ha potuto costruire un impero dell'acciaio sulle rovine degli investimenti nell'Europa dell'Est e nelle zone economiche speciali della periferia. Il fattore decisivo è stata la saldatura tra il processo di espansione geografica e le nuove forme di divisione internazionale del lavoro: nuove forme rese possibili dalla miniaturizzazione del capitale fisso, dalla nuova tecnologia dell'informazione e dalla massiccia riduzione dei costi di trasporto. Si è così resa possibile la costituzione di società globalmente connesse, le cui catene di creazione di valore sono guidate dai centri di sviluppo, progettazione e marketing dislocati per lo più nelle metropoli; mentre la segmentazione dei processi lavorativi può essere distribuita nelle regioni del mondo con i più ignobili tassi di sfruttamento, per poi essere in seguito riannodata e riunificata.
Che le nuove forme di divisione internazione del lavoro siano state il fattore strategico decisivo del ciclo precedente diventa immediatamente chiaro se osserviamo le due economie nazionali più importanti, entrate in un rapporto di tacita simbiosi, la quale ha avuto conseguenze decisive all'inizio degli anni '90: gli Usa e la Cina. La simbiosi è consistita e consiste in questo: uno dei due partner risparmia e lavora sodo, mentre l'altro consuma a piene mani i prodotti e le rendite ottenuti. Questa è, ovviamente, un'immagine piuttosto sfuocata, ma riflette i fatti decisivi. Il dispotismo di stato in Cina, nel corso del processo di avanzamento dello sviluppo capitalistico, ha incatenato i suoi sudditi, i contadini e i lavoratori migranti, ad una filiera produttiva allungata a livello mondiale, ha esportato i suoi prodotti verso i centri dello sviluppo (specialmente gli Usa) a prezzi stracciati, e si è accontentata di promesse di pagamento (bond governativi). Ciò ha permesso agli Usa di nascondere, attraverso l'espansione del credito, a sua volta riverberata a livello mondiale, i processi di pauperizzazione causati dalla sua strategia di bassi salari. La filiera cinese si è trasformata dunque nella principale banca statunitense e si è incatenata ad essa, nella prosperità e nella rovina dal momento che una grave caduta del dollaro finirebbe col mandare in rovina entrambi i partner. La banca centrale cinese trattiene infatti la parte preponderante delle proprie riserve valutarie in dollari americani (2 trilioni) e buoni del tesoro USA per circa 1 trilione di dollari: nel caso di un'incontrollata caduta del dollaro, la posizione di creditore della Cina risulterebbe drasticamente compromessa, mentre gli Usa finirebbero in bancarotta per la fuga dei capitali internazionali che ne deriverebbe. Anche senza entrare in uno scenario tanto orribile, il superamento di un perverso e grottesco rapporto tra debitore e creditore di questo tipo è diventato comunque impossibile. Un semplice calcolo mostra quanto sarebbe difficile compensare il declino del sovra-consumo relativo americano in atto un declino che fa tutt'uno con il ritorno della popolazione al vecchio tasso di risparmio del 5% del Pil con un parallelo aumento del consumo di massa in Cina, in grado di mettere entrambi in condizione di superare il buco che si apre nella bilancia dei pagamenti. Perché tutto ciò funzioni, il consumo di massa cinese, che attualmente è molto basso, dovrebbe crescere immediatamente del 40%. Ciò sembra pressoché impossibile. E tuttavia questo getta un raggio di luce sul fatto che la leva per un intervento anticiclico di portata mondiale (e in grado di rafforzare il sistema) si trova innanzitutto in mano alla Cina, e che il decorso della crisi, con la probabile depressione da debito che ne scaturirà, in assenza di un'alternativa rivoluzionaria, sarà fondamentalmente deciso in prima istanza dal progetto "Chimerico".
Ristrutturazione e internazionalizzazione delle catene di sfruttamento e di creazione del valore non sarebbero state possibili senza l'espansione internazionale del sistema finanziario. La flessibilizzazione dei tassi di scambio ha indotto la costituzione di mercati valutari internazionali (il mercato dell'eurodollaro, del petrodollaro, dell'asiadollaro) - all'interno dei quali il biglietto verde continua a mantenere la sua posizione di supremazia -, nei quali sono stati sviluppati nuovi strumenti monetari e creditizi per arginare i rischi associati ai tassi di cambio delle valute estere, ai prezzi delle merci in continua fluttuazione e alla volatilità del mercato azionario. Al rapporto di credito «morigerato» sinora esistito tra banche e i complessi industriali, basato su profitti a medio termine, è venuta sostituendosi l'autocrazia di uno strato crescente di azionisti orientati a massimizzare i guadagni a breve termine, i quali hanno fondato una nuova sfera di fondi di investimento con il cui aiuto i quadri manageriali hanno imposto a tutti i settori economici e commerciali il corto guinzaglio di rendite massimali di breve periodo sul capitale proprio e su quello straniero. Questo ha indotto la «finanziarizzazione» dell'intero sistema economico e di tutte le fasi della metamorfosi capitalista, accrescendo il prodotto medio del capitale del 20-25%, ma con un corrispondente aumento dei rischi e dell'instabilità. Parallelamente, il settore finanziario in espansione ha spinto il credito in direzione delle classi medio-basse, che hanno dovuto accettarlo per mantenere gli standard di vita cui erano abituate, nonostante la crescente precarizzazione del lavoro e del reddito. Come terza cosa, infine, una dimensione dell'espansione capitalista di tipo nuovo, determinata dal settore finanziario, ha iniziato a svilupparsi all'interno dei gangli della riproduzione sociale. Io la chiamo «capitalismo tributario»: risorse pubbliche comuni sono state espropriate allo scopo di trasformare in merci i bisogni della riproduzione umana quotidiana (dall'acqua potabile, all'energia, alla salute, alla protezione contro tutti i rischi possibili) e per incrementare i guadagni del capitale su di essi.
Un ultimo fattore esogeno importante del ciclo precedente è stata la crescente distruzione della base naturale del sistema economico. Ciò è stato non solo conseguenza dell'immane espansione quantitativa e qualitativa dei processi di produzione immediata e delle catene logistiche ad essi collegate, ma anche della contemporanea marginalizzazione della povertà di massa nel Sud, sempre più sospinta nelle nicchie degli ecosistemi ancora incontaminati, mentre, viceversa, i nuovi sistemi politici e le classi medie delle economie emergenti hanno iniziato ad imitare i peccati ambientali delle metropoli. Così come il ciclo precedente aveva usato le risorse mondiali di forza-lavoro senza scrupolo alcuno, lo sfruttamento degli ecosistemi è stato portato spietatamente all'estremo. Sono stati indubbiamente avviati sforzi considerevoli per «ecologizzare» la riproduzione capitalista, ma essi non sono stati sinora che gocce gettate su di una pietra calda. Questi sforzi di piccola portata, strappati da una crescente consapevolezza ambientale, sono stati nondimeno sufficienti per generare una seria crisi strutturale in settori industriali come quello dell'auto che hanno seguito troppo tardi questa tendenza, o che non l'hanno seguita affatto.
Riflettere sui principali fattori endogeni ed esogeni dei cicli precedenti è un dato irrinunciabile, al fine di comprendere adeguatamente la crisi attuale e il suo processo. Questi fenomeni, tuttavia, non sembrano fornirci ammesso che una simile speculazione sia possibile gli strumenti per poter pensare gli ulteriori sviluppi e gli esiti possibili della crisi. Un breve sguardo integrativo alle principali crisi economiche mondiali nel corso della formazione della società capitalista nella sua fase industriale, cioè degli ultimi 150 anni, può esserci d'aiuto. Voglio dunque passare in rassegna, da un punto di vista comparativo, le affinità e le differenze tra la crisi attuale e quelle precedenti. È un metodo decisivo per non smarrire il filo rosso del ragionamento mentre ci occupiamo di strutture e manifestazioni del presente tanto complesse.
La crisi del 1857-58 fu la prima a impadronirsi sincronicamente del capitalismo del tempo. Essa ebbe inizio negli Usa, dove una speculazione su vasta scala sulle ferrovie, il settore trainante dello sviluppo capitalistico, scatenò una grave crisi. Presto essa si diffuse nelle città commerciali della Gran Bretagna e della Germania settentrionale, oltre che in Scandinavia, in Francia e nell'Europa sudorientale. Resa peggiore dall'iniziale adozione di massicce misure pro-cicliche da parte della Banca di Inghilterra, essa iniziò a distruggere il commercio mondiale, penetrando infine in quelli che al tempo erano i centri industriali e infrastrutturali (Sheffield, Manchester, la Ruhr, la Francia settentrionale, i progetti ferroviari mondiali, ecc.). Negli anni precedenti, il capitalismo aveva completato una enorme espansione commerciale, a seguito della guerra di Crimea (1853-56), e aveva inoltre realizzato un'enorme espansione geografica (colonizzazione di California, Messico e Australia, acuirsi del dominio britannico in India, apertura forzata della Cina). Per queste ragioni Marx si attendeva, nel 1857-58, una rivoluzione operaia transatlantica. Egli dovette però presto ricredersi. Le conseguenze della crisi furono in gran parte superate nel corso del 1858 e un nuovo periodo di espansione e prosperità ebbe inizio per poi continuare fino al 1870/71. I contemporanei sottolinearono l'ampia portata della violenza della crisi, che tuttavia, se paragonata alle crisi successive, manteneva un carattere ancora embrionale.
La grande depressione fu innescata dai crac scoppiati simultaneamente nei diversi luoghi in cui era in atto la ripresa dell'accumulazione capitalistica. Tale depressione ebbe inizio in particolare nell'Impero tedesco appena fondato e nella monarchia asburgica, prima di impossessarsi della Gran Bretagna e poi, con particolare forza, degli Usa. Durò fino al 1879 e si trasformò in una lunga depressione, che ebbe termine solo nel 1895. I suoi effetti furono superati dalle diverse economie nazionali in modi molto diversi. Negli Usa la colonizzazione del West fu brutalmente compiuta e nacquero imprese ciclopiche (i «trusts»), che giocarono un ruolo fondamentale nell'avanzata di quelli che allora erano i nuovi settori ad alta tecnologia, come le industrie chimiche e dell'elettricità. Un'analoga seconda ondata di industrializzazione, caratterizzata da un uso intensivo della scienza, fu avviata dalla Germania Imperiale, una volta che essa fu in grado di superare gli effetti del crac che avevano dato inizio alla crisi. In quel modo, soprattutto in Germania e negli USA, furono gettate le basi per una ricostruzione generale dei processi di sfruttamento industriale che avrebbero espropriato la classe operaia delle proprie abilità artigianali per sottometterla, nella sua nuova veste di operaio massa, al dispotismo del ritmo delle macchine e delle tecnologie di processo. Si trattò, dunque, della prima crisi economica mondiale in grado di accelerare straordinariamente, in termini tecnologici e di organizzazione del lavoro, la ricomposizione del processo di valorizzazione industriale. Il rapporto tra capitale e lavoro fu posto su basi del tutto nuove, e ad esso la classe operaia mondiale rispose nel 1905 con la sua prima rivolta globale e con lo sviluppo del sindacalismo rivoluzionario (Industrial Workers of the World). Francia e Gran Bretagna, di contro, riallineavano i confini dei loro imperi coloniali. In particolare, l'Inghilterra Vittoriana distrusse l'economia di sussistenza di quelle che erano allora le aree periferiche del suo impero, fino a causarne la catastrofe per fame, che costò milioni di vite e diede vita al cosiddetto «Terzo Mondo».
Sussistono ancora molti enigmi sulle crisi economiche del secolo passato, anche se sono state studiate in profondità per decenni. Possiamo tuttavia dare per assodato che il loro carattere diffusivo e la loro pesantezza furono determinate dallo strano corso della crescita a partire dal 1896: la I Guerra Mondiale fu scatenata proprio mentre si annunciava la recessione globale. Il ciclo venne dunque allungato dalla congiuntura bellica globale, per sfociare, dopo la sconfitta della rivoluzione operaia internazionale del 1916-21 e il superamento di un periodo di imponente iperinflazione, nei «ruggenti» anni '20, sorprendentemente simili ai «pazzi» primi dieci anni del XXI secolo. Anch'essi furono infatti caratterizzati da un eccesso di speculazione azionaria e creditizia, da redditi complessivi tenuti bassi, e da una sovra-accumulazione nei segmenti industrializzati dell'agricoltura e nei settori di capitale industriale che avevano subito la razionalizzazione. La crisi iniziò come crisi agricola internazionale, con la caduta dei prezzi delle più importanti materie prime, e si estese in seguito alle borse americane nell'ottobre 1929, provocando il tracollo del commercio mondiale dal 1930 in poi, quando gli Usa scatenarono un'ondata protezionistica globale per mezzo di una legge doganale che copriva praticamente ogni settore economico. La crisi si spostò in seguito sui principali settori industriali e acuita, a partire dal 1931-32, da una crisi bancaria nata in Europa e dalla corsa alla svalutazione delle valute principali, finì col dimezzare il Pil e con l'incrementare la disoccupazione del 25-35% in tutti i paesi industriali. Tutti i tentativi di sconfiggere la depressione che ne seguirono furono vani. Anche il «New Deal» americano. Si pervenne così ad una guerra economica internazionale, radicalizzata dalla corsa agli armamenti e dalla politica espansionistica dei centri dell'asse fascista: Germania, Italia, e Giappone. La crisi fu superata solo a partire dal 1938, con la corsa internazionale agli armamenti iniziata in Europa e arrivata negli Usa attorno al 1940, dove beneficiò delle commesse belliche della seconda guerra mondiale. Questa uscita catastrofica dalla crisi non fu predeterminata in alcun modo da una «regolarità». Essa dovrebbe perciò aiutarci a capire, mentre discutiamo della crisi che si sta attualmente espandendo, che il nostro compito consiste nel suggerire e nell'imporre modalità di superamento della crisi in grado di bloccare la guerra economica mondiale e che possano essere usate come leve per una trasformazione socialista del sistema mondiale.
Prima di concentrarci su questa questione, dovremmo chiederci chi potrebbe essere in grado di trovare una via d'uscita alla crisi che non conduca di nuovo alla barbarie capitalista, ma liberi invece una prospettiva di trasformazione socialista. Possono esserlo solo quelle classi e quelle fasce di popolazione che, per sopravvivere, sono costrette a vendere e a privarsi della propria forza lavoro a favore della macchina di accumulazione e di regolazione capitalista: i poveri del mondo, dai quali si forma il multiverso in continua trasformazione della classe operaia globale.
Questo punto di partenza è tutt'altro che autoevidente, e vorrei dunque discuterlo più da vicino. Il suo fondamento è il concetto di classe operaia mondiale, elaborato dalla critica della storiografia operaia nazionale ed eurocentrica e dall'ulteriore sviluppo dei concetti marxisti di classe e di lavoro.
La storia del lavoro globale è un una branca molto giovane della storia del lavoro, ma è giunta a risultati importanti. E' ora possibile dare per assodato che, sin dall'inizio, la formazione della classe operaia si è determinata in contesti globali. Il processo ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo nel corso delle rivolte sociali transoceaniche e transcontinentali, che furono combattute assieme dai marinai della marina militare e mercantile reclutati a forza dagli schiavi (Caraibi), dai lavoratori autonomi emigrati nelle colonie (piccoli contadini e artigiani) e dai proletari dell'officina e della fabbrica. Queste sollevazioni di commoners iniziarono nel 1775-6 nel corso della guerra rivoluzionaria nordamericana contro la dipendenza coloniale dalla madrepatria inglese, ma ebbero anche enormi ripercussioni sulla formazione della classe operaia locale. Riconoscere tutto questo ha finalmente reso possibile superare alcuni vecchi limiti di eurocentrismo e di blocco della prospettiva transatlantica, della quale anche i più grandi studiosi della materia, come E.P. Thompson, furono preda. Sin da questa prima fase di formazione della classe operaia globale alla fine del XVIII secolo si sono determinate specifiche fasi di proletarizzazione e di relativa de-proletarizzazione delle classi subalterne della popolazione mondiale; fasi che in parte anticipavano la spinta espansiva globale del capitale (migrazione intercontinentale, politica e sociale), o che si mettevano in moto sulla sua scia. L'ultima fase di de-proletarizzazione relativa la si è avuta durante il ciclo di accumulazione e di regolazione dominato dal welfare-state negli anni '50 e '60 del Novecento, accompagnatasi ad una provvisoria decolonizzazione delle zone periferiche. A partire dal 1973, una nuova ondata di ri-proletarizzazione le ha dato il cambio. E su di essa ci sarebbe molto da dire, perché l'interna composizione della classe operaia globale all'inizio della crisi stimola intuizioni relative alle sue attuali possibilità di azione.
La classe operaia globale non è caratterizzata solo dall'essere salariata e subordinata, ma rappresenta piuttosto, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, un multiverso pluristratificato. Dentro questo multiverso, il lavoro salariato della grande industria ha giocato un ruolo importante, e per un certo tempo anche politicamente egemonico, senza tuttavia potersi attendere di assorbire i restanti segmenti del proletariato e/o di trasformarli in un puro esercito industriale di riserva. La classe globale degli operai e delle operaie si è fino ad oggi costituita nel pentagono descritto da povertà e disoccupazione di massa, da economia contadina di sussistenza, dal lavoro autonomo (piccoli contadini, artigiani, piccoli commercianti, lavoratori della conoscenza formalmente autonomi), da lavoratori industriali, e da rapporti di lavoro non liberi di tutti i tipi (schiavitù, servitù da debito, lavoratori coolie o a contratto, forza lavoro militarizzata o imprigionata, fino a giungere ai lavoratori poveri delle metropoli, che sono privati della loro libertà di movimento, per esempio, in Germania, i beneficiari della Hartz 4). Tra questi segmenti della classe operaia globale, che nelle diverse regioni globali si trovano in relazioni molto diverse tra di loro, si determinano scorrimenti fluidi e si annodano reti i cui fili, in particolare nelle migrazioni di massa, collegano da un lato i nuclei familiari proletari e di piccoli contadini e dall'altro le culture transcontinentali. Citando il giovane Marx, partiamo dal presupposto che le classi dei poveri siano il più potente agente di eguaglianza sociale, economica, sessuale ed etnica, poiché solo l'abolizione generale della proprietà privata può rendere possibile la distruzione della doppia alienazione dell'uomo rispetto ai suoi processi vitali attivi e al lavoro reificato che gli sta di fronte come potere estraneo, come capitale. È per queto motivo che i processi di omogeneizzazione e di convergenza all'interno del multiverso proletario sono il nostro principale punto di riferimento. Ciò che è dunque in questione non è solo l'abolizione del lavoro salariato, ma anche quella di qualsiasi tipo di sfruttamento e di oppressione determinato dal fatto che la maggioranza degli uomini debba privarsi della propria forza lavoro per poter sopravvivere.
Tutto ciò per quanto riguarda le premesse concettuali. Ora, le domande da porsi sono: che forma ha preso il processo di formazione e frammentazione di classe nel corso del passato ciclo di sottooccupazione strategica e di sfruttamento intensificato? Quali sono i bisogni elementari della classe operaia globale e come potrà difenderli nella fase di disoccupazione e povertà di massa che si prepara? Avrà la forza o potranno averla almeno parti importanti di essa di superare la posizione difensiva e di mettere all'ordine del giorno la riappropriazione sociale e egualitaria della ricchezza sociale?
Le famiglie che vivono di un'agricoltura di sussistenza nel Sud del mondo e in alcune importanti economie emergenti rappresentano ancora il grosso della classe operaia globale, annoverando 2,8 miliardi di persone, 700 milioni dei quali nella sola Cina. Si riproducono in economie di sussistenza a base familiare di tipo Caianov. Queste complesse strutture, intessute in comunità di villaggio e in sistemi di clientela, si trovano sempre più in pericolo e riescono a sopravvivere solo attraverso redditi da lavoro a tempo determinato o indeterminato che provengono da settori non agricoli (lavoro migrante continentale e transcontinentale). Nel ciclo precedente i presupposti esistenziali sono stati progressivamente sottratti loro dalla trasformazione delle pianure più fertili e delle aree coltivate in grandi imprese agricole meccanizzate, dalle conseguenze del cambiamento climatico, e dall'espropriazione della terra.
Negli ultimi decenni, centinaia di milioni di uomini si sono spostati all'interno di un continente, o da un continente all'altro, per scappare dalla povertà di massa, che ha colpito le economie di sussistenza, e dalla barbarie della guerra civile, o per poter mantenere le famiglie contadine di provenienza rimaste a casa. Migrazioni di massa all'interno della Cina, spostamenti di massa dal Sud e dal Sud Est Asiatico in direzione della regione del Golfo, dall'Africa all'Europa meridionale attraverso la regione mediterranea, dall'Europa orientale a quella occidentale, e dall'America centro-meridionale a quella settentrionale. Le sottoclassi dei paesi industrializzati e di molte delle economie emergenti sono costituite tra il 10 e il 20% da migranti. Col passar del tempo si sono sovrapposte diverse ondate migratorie e si sta creando una cultura quotidiana transfrontaliera, multilingue e altamente intelligente. Al suo interno si sovrappongono tendenze multiculturali e aspirazioni all'auto-affermazione di identità etniche. Negli ultimi decenni questi sviluppi hanno decisamente marcato il processo di proletarizzazione, e rappresentano oggi uno dei più importanti punti di riferimento della composizione di classe globale.
Non tutti coloro che lasciano le economie di sussistenza rurale e la guerra civile riescono a stabilirsi permanentemente, o anche solo temporaneamente, nei territori metropolitani o nei paesi emergenti. Questa popolazione mondiale eccedente vive oggi nelle città-slum delle aree periferiche di molte economie emergenti. Essa spinge in avanti processi di urbanizzazione che hanno luogo quasi in assenza di industrializzazione e di crescita economica. La massa dei poveri delle città-slum sopravvive sull'orlo del genocidio per fame e a rischio di gravi epidemie grazie all'economia sommersa e/o informale. Essa deve far fronte a forme estreme di iper-sfruttamento, nelle quali prevalgono rapporti di lavoro non liberi o solo apparentemente autonomi. Si tratta di più di un miliardo di uomini che popolano enormi agglomerati urbani, guadagnandosi da vivere a stento a fianco delle vie di trasporto e dei fiumi delle metropoli del Sud del mondo, progressivamente respinti, sotto la minaccia di catastrofi naturali, verso le aree costiere e desertiche. Le linee di passaggio tra le economie rurali di sussistenza e i canali della migrazione di massa si fanno sempre più precarie. Vi è da temere che l'attuale crisi economica finirà con l'accelerare questo immane processo di ghettizzazione. E già da ora ci sono segnali che indicano come la povertà di massa urbana, con i suoi ricoveri per i senza tetto, pubblici e nascosti, e le mense dei poveri per i disoccupati, stia iniziando a caratterizzare anche le global cities del Nord del mondo.
Lo sviluppo della nuova classe operaia industriale delle economie emergenti ha cambiato radicalmente, negli ultimi due decenni, la composizione di classe globale. Nel corso degli ultimi due cicli economici, essa ha velocissimamente assolto a processi di crescente qualificazione tecnica e si è conquistata aumenti di reddito considerevoli. Durante gli anni '80 e '90, i settori low-tech sono stati progressivamente ricollocati, nell'immediata periferia e con essi si è allungata anche la classe operaia del filiera produttiva «allungata», in particolare nei settori del tessile e della produzione dei beni di consumo. In forza dell'appianarsi del divario tecnologico e dell'ormai pressoché completa delocalizzazione di settori chiave dell'industria (cantieri navali, industria dell'auto, industria elettrica ed elettronica, chimica, tessile), la composizione di classe delle economie emergenti e delle regioni sviluppate del sistema mondiale è venuta avvicinandosi. Questo vale anche per i segmenti della precarietà del multiverso operaio: mentre la loro rilevanza decresce nelle emerging economies, essa viene invece considerevolmente aumentando nelle metropoli.
Negli ultimi decenni, il settore del lavoro salariato nelle regioni della triade (Usa, Europa e Giappone) si è significativamente contratto. La sua composizione tecnica è nel contempo radicalmente cambiata per effetto dell'innovazione tecnologica che ha conquistato e integralmente trasformato tutti i settori manifatturieri e dei servizi. Molti dei segmenti resistenti e con decisive esperienze di lotta operaia (tipografi, il classico operaio portuale) sono scomparsi o sono venuti, anche nelle grandi economie nazionali, riducendosi a poche centinaia di migliaia. Parallelamente, il lavoro precario o solo formalmente «autonomo» è diventato un elemento essenziale nella composizione di classe delle metropoli. La riduzione del reddito da lavoro dipendente ha interessato nel corso degli ultimi anni tutti i segmenti della classe operaia, compreso il cosiddetto nucleo occupazionale della grande industria. Un quarto di tutti coloro che sono costretti al lavoro dipendente non riesce più a mantenere il proprio standard di vita oltre il livello di povertà, pur con ore e ore di straordinari.
Nell'ultimo ciclo le tendenze all'omogeneizzazione e alla frammentazione della classe operaia globale si sono nel complesso più o meno equilibrate a vicenda. In tutte le regioni del sistema mondiale le piccole economie di sussistenza contadina sono entrate in quella che potrebbe dirsi una crisi finale, innescando processi di migrazione di massa e la formazione di una popolazione globale eccedente, che ha dato un nuovo volto alla classe operaia globale, caratterizzandola per una mentalità transcontinentale e transculturale. Un processo di omogeneizzazione, posto in essere dai segmenti salariati e industriali della classe operaia, si è venuto sviluppando in senso opposto, principalmente per l'ormai completatasi «periferizzazione« della produzione industriale di massa.
Anche le tendenze alla frammentazione sono state tuttavia notevoli. Benché le condizioni di vita e di lavoro si siano deteriorate a livello mondiale, le differenze regionali negli standard di vita dei proletari si sono considerevolmente ampliate. Tra le possibilità di sopravvivenza di chi vive accanto a fogne a cielo aperto e a discariche nelle città-slum e quelle dei precari multiculturali dei «Kieze» delle aree metropolitane permangono differenze enormi. Si aggiungono poi elementi di un' omogeneizzazione negativa, che potenziano le tendenze in direzione di una possibile regressione patriarcale ed etno-politica in tutto il mondo, quali la crescente fissazione su promesse di salvezza religiose o la sottomissione a forme di protezione clientelare di stampo mafioso. Sono tendenze che non dobbiamo assolutamente sottovalutare, perché condizioneranno sensibilmente le nostre future possibilità di azione. Si tratta di un'ipoteca gravosa: nel 1979-80 in Iran l'ala socio-rivoluzionaria dell'Islam sciita fu sradicata dalla fazione archeo-teocratica dell'Ayatollah. Pochi anni dopo, organizzazioni islamiche hanno massacrato i quadri residui della sinistra e hanno messo a tacere i poveri della regione sottomettendoli a strutture di politica sociale patriarcali e reazionarie. Oggi il sottoproletariato della Rust Belt americana è dominato dagli evangelici, e nelle città-slum un grado minimo di istruzione e di sicurezza sociale viene mantenuto solo dalle comunità delle chiese avventiste, che annoverano più di cento milioni di proseliti. Nella stessa Europa, tuttavia, il movimento dei lavoratori ha abbandonato la classe operaia. In che direzione tutto questo ci possa condurre lo dimostra il caso di Marsiglia, città nella quale i migranti di seconda generazione, dopo l'esodo dal Partito Socialista, si sono sempre più spesso rivolti agli uffici del welfare del Front National. Senza dubbio alcuno, tutto ciò vuol dire che il ritorno della sinistra nella realtà quotidiana della classe operaia si è fatto più difficile, eppure questo ritorno, con l'emergere della crisi attuale, è diventato una questione impellente. Per quanto difficile esso sia, comunque, un'alternativa non c'è.
La scelta obbligata non mi pare però priva di prospettive. Non troppo tempo prima dell'inizio della crisi si poteva già notare un'evidente ripresa di lotte e di rivolte i cui protagonisti, uomini e donne, si relazionavano in forma solidale, sviluppavano modi di intervento egualitari, e rifiutavano sempre più radicalmente di pagare il costo sociale della crisi. Viene riferito di rivolte di massa di intere imprese nel delta del Pearl River, in Cina, in cui i dipendenti resistono violentemente alla improvvisa chiusura delle fabbrica e ai ritardi nel pagamento dei salari a cui hanno diritto. Anche nelle province rurali della Cina occidentale la situazione si sta riscaldando e si stanno facendo sempre più frequenti i tumulti locali e regionali contro le espropriazioni arbitrarie di terra e la distruzione della natura e dei mezzi di sostentamento. Ma anche nel Nord del mondo si moltiplicano i segni di una ripartenza. A Chicago e nello Schleswig-Holstein si fanno notare le occupazioni delle fabbriche, dopo improvvise chiusure nel settore dell'indotto dell'auto. In Francia, Italia e Grecia i giovani si battono contro la distruzione delle loro possibilità di formazione, a maggior ragione quando assieme ad essa si determina anche un drastico peggioramento delle prospettive professionali legate alle qualifiche acquisite. In tutte queste insorgenze è andata forgiandosi una crescente consapevolezza della crisi, sintetizzata in slogan quali «non pagheremo noi la vostra crisi». Si riuscirà a trasmettere questo dispositivo fondamentale di solidarietà alla forza lavoro delle grandi fabbriche e a spezzare la catena gerarchizzata di licenziamenti sostenuta dai sindacati e dalla maggior parte dei consigli di fabbrica che va dai precari ai salariati manuali? Si dovrebbe almeno provarci con lo slogan: «settimana lavorativa di tre giorni? Bene! ma con stipendio pieno per tutti, indipendentemente dal rapporto di lavoro, perché abbiamo bisogno di due giorni alla settimana per la presa dello stabilimento in autogestione».
Complessivamente, è logico aspettarci un'altra spinta globale di proletarizzazione determinata dalla crisi, a seguito della nuova ondata di disoccupazione di massa che si prepara nei centri della crisi stessa: negli Usa, in Europa e in Asia Orientale. Di nuovo, milioni di persone precipiteranno socialmente. Come reagiranno? Le famiglie proletarie, i gruppi sociali che le circondano e i pluristratificati segmenti del multiverso proletario hanno diverse possibilità, dato che nulla hanno più da perdere: possono ribellarsi per assicurarsi un diritto all'esistenza e per imporre una società egualitaria; ma possono però imboccare anche la via dell'autodistruzione individuale, familiare e sociale, restaurando la violenza patriarcale o riaccendendo conflitti etnici per garantirsi la sopravvivenza a scapito di altri gruppi proletari. Terza possibilità, essi potrebbero anche decidere di regredire politicamente, proiettando le loro paure e la loro frustrazione su nuove figure di leader carismatici e governi dispotici, che farebbero un cattivo uso della potenza sociale di chi finisce col sostenerli per assicurare gli interessi delle classi non proletarie. In contrasto con questi tre possibili sviluppi degli eventi, è ovviamente anche possibile che essi si accontentino di progetti riformistici che cerchino di superare la crisi con l'intervento da parte dello stato; progetti riformistici che adesso come in precedenza si fondino sull'enorme potenza di rinnovamento della formazione sociale capitalista e possano perciò - per quanto limitatamente - prendere in considerazione gli interessi minimi dei proletari. Come dunque potremmo rafforzare le tendenze all'omogeneizzazione e all'emancipazione nelle attuali condizioni di crisi economica mondiale?
Noi non dovremmo unirci a coloro che, dall'estrema sinistra, ripongono le loro speranze in una accelerazione e in un approfondimento della dinamica di crisi, che dovrebbe automaticamente determinare il processo rivoluzionario di collettivizzazione di tutti coloro che non hanno niente da perdere. L'automatismo concettuale di crisi e rivoluzione è stato confutato sin dalla fine della Grande Depressione del secolo scorso. Abbiamo inoltre più tardi acquisito, analizzando il processo di decolonizzazione, che l'arma della critica, dopo essere stata trasformata in critica delle armi da una autoproclamata posizione di avanguardia, non porta necessariamente alla liberazione sperata, ma produce spesso, piuttosto, una nuova classe di government people e sfocia in sanguinose guerre civili, in modo tale che l'aspettativa di emancipazione non solo viene rovesciata nel suo contrario, ma finisce anche con l'essere per decenni espropriata dei suoi presupposti materiali. Noi vogliamo evitare che la crisi economica mondiale diventi una guerra economica mondiale tra le superpotenze multipolari, e le cui ulteriori conseguenze possano essere nuove guerre. Dobbiamo nel contempo guardarci da aspettative rivoluzionarie emotive, escatologiche, fissate sulla violenza, perché la domanda di emancipazione proletaria può letteralmente colare a picco in un conflitto di classe che assuma la forma della guerra civile. Non c'è carta bianca per chi ha di fronte a sé realtà e pericoli di una rapida caduta sociale. Questo punto di vista non deve tuttavia essere preso come un voto a favore della via di una «disobbedienza civile» alla Gandhi, ed essere perciò frainteso. La lotta di massa autoorganizzata per assicurarsi le basi materiali di esistenza e la riappropriazione dei mezzi di produzione, della casa e dei beni comuni, è impensabile senza l'utilizzo della violenza proletaria. Questo aspetto in particolare dovrebbe essere ben ponderato e collettivamente orientato, esattamente quanto l'insieme degli altri elementi del nuovo conflitto di classe che deve essere preparato.
Per tutti questi motivi, la prospettiva emancipativa ha bisogno di una visione della trasformazione sociale analiticamente dimostrata, che si coniughi a programmi di azione immediata. Affinché la crisi non porti né alla riforma del capitalismo, né alle tre possibili varianti della barbarie - autodistruzione, guerra civile, o guerra economica mondiale come precondizione di una vera grande guerra -, la prospettiva di auto emancipazione proletaria dovrebbe distribuirsi su due livelli di azione che, facendo presa l'uno sull'altro, la renderebbero effettiva. Primo, una cornice di azione in grado di radicalizzare i programmi anti-ciclici che vengono ora avviati; secondo, e a partire da questo, la programmazione dell'inizio del progetto di trasformazione rivoluzionaria della società capitalista.
Per quanto riguarda il primo livello d'azione, dovremmo capovolgere le garanzie fornite dai governi al sistema finanziario e i massicci piani congiunturali attualmente in corso di avvio in Cina, nell'Unione Europea, negli Usa e in Giappone. Gran parte dei 7 trilioni di dollari mobilitati devono essere deviati in direzione della salvaguardia dell'esistenza della massa globale dei poveri, delle economie agricole di sussistenza e dei piccoli contadini del Sud del mondo, dei disoccupati e dei precari delle economie emergenti e delle metropoli, nonché della classe operaia industriale. Questa procedura di capovolgimento va legata alla riduzione radicale dell'orario di lavoro, senza tagli ai salari e a uguali condizioni di lavoro. I sistemi di sicurezza sociale dovranno essere costruiti da zero (in Cina e in altri paesi in via di sviluppo) o ristrutturati (incremento dei sussidi di disoccupazione sino a tre quarti del salario medio, restituzione e garanzia dei diritti e della sicurezza previdenziale colpiti negli ultimi anni, potenziamento della formazione, ricostruzione della sanità in base ai bisogni collettivi). Questo trasferimento non può essere portato a termine aumentando il deficit pubblico, ma va realizzato per mezzo della confisca dei grandi capitali (dai 50 milioni di dollari in su), oltreché con la tassazione progressiva dei capitali al di sopra di un 1 milione di dollari e di tutti i redditi annui sopra i 150.000 dollari.
Questa massiccia redistribuzione di ricchezza dall'alto verso il basso non mira alla stabilizzazione generale del ciclo di crisi, ma si serve degli strumenti keynesiani per chiudere la forbice tra sovra-accumulazione e sottoconsumo grazie l'aumento del reddito di massa, e al fine di pervenire, così, al suo superamento. C'è un'irrisolvibile differenza qualitativa tra i bisogni e i desideri della classe operaia e la grandezza economica del «potere d'acquisto totale», e questa differenza dischiude la possibilità ai poveri in via di omogeneizzazione di spingere più in là l'intervento anticiclico dei gruppi di potere che detengono ora la leva di comando delle politiche economiche. Si rendono a questo scopo necessarie azioni di massa coordinate a livello mondiale; ma è ugualmente necessaria una campagna di informazione in grado di fare globalmente rete, evitando qualsiasi relazione di tipo istituzionale con i progetti e con i partiti che sostengono politiche anticicliche e di superamento della crisi interne al sistema.
Dovremmo inoltre sostenere l'introduzione di una nuova valuta, che venga composta e garantita da un paniere rappresentativo delle valute nazionali, indipendentemente dal livello della loro ricchezza specifica. Muovendo da ciò, potrebbero essere ristabiliti i tassi di cambio fissi, che potrebbero a loro volta essere usati per bilanciare svalutazione e sopravalutazione della moneta, per standardizzare le riserve monetarie e per stabilizzare le bilance dei pagamenti l'una rispetto all'altra. La sovra-accumulazione del sistema finanziario mondiale verrebbe in questo modo in gran parte ridotta al minimo. Verrebbe inoltre sconfitta la simbiosi letale tra Washington e Pechino, la quale spinge il sistema mondiale verso l'abisso.
Nel quadro delle lotte di massa che si stanno sviluppando su scala mondiale, dovremmo intervenire, come terza cosa, affinché rappresentanze operaie di base, democraticamente elette, vengano introdotte nei processi di ridimensionamento e di ristrutturazione delle grandi imprese e sostituiscano i manager delle organizzazioni burocratiche del lavoro (sindacati e consigli di fabbrica). Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi si porrà in primo piano la ristrutturazione dell'industria dell'auto. Ci sembra perciò impellente a partire dalle occupazioni degli impianti che ci dobbiamo aspettare il creare un'associazione globalmente connessa dei lavoratori dell'industria automobilistica mondiale, in grado di combinare le lotte per una drastica riduzione dell'orario e per uguali condizioni di lavoro (e in particolare per l'abolizione del gap tra forza-lavoro interna e lavoratori esternalizzati), con la richiesta di uno sviluppo accelerato di mezzi di trasporto non inquinanti e «risocializzati». Il grado di successo di questa iniziativa dipenderà dalla capacità della classe operaia di far partire a livello globale un processo autodeterminato di superamento della crisi e di respingere quello opposto, protezionistico, di de-globalizzazione nei segmenti a capitale intensivo del sistema economico mondiale. Verrebbe così creata la base per il lancio di iniziative di massa dei settori adiacenti (energia, trasporti e logistica) e per la coordinazione dei loro obiettivi. Si avvierebbero in questo modo processi di apprendimento di massa sin dal loro inizio globalmente connessi, e che potrebbero servire da preparazione per l'autogoverno collettivo della vita e della riproduzione sociale.
Per mezzo della forzatura e della radicalizzazione dei programmi di riforma anti-ciclica, deve essere aperta la strada a un processo di trasformazione rivoluzionaria. Esse rendono possibili processi di formazione collettiva in grado di produrre un bisogno generalizzato di cambiamento radicale, in direzione dell'emancipazione e dell'autonomia sociale. La transizione verso il socialismo ha una possibilità di successo solo se si sviluppa come un bisogno, un'urgenza irrinunciabile in tutto il mondo. Questo processo ha bisogno di tempo - di certo, di svariati anni. E tuttavia lo stesso processo di trasformazione si estenderà per decenni, fino a raggiungere il punto di non ritorno. Allora, l'autogestione diretta dei mezzi di produzione e di riproduzione riappropriati avrà creato strutture egualitarie e democratico-radicali, che renderanno impossibile la restaurazione del dominio di classe.
Presupposto fondamentale è in primo luogo la realizzazione di strutture democratico-radicali (rinnovamento dei sindacati, nel senso dell'adozione dei principi di rappresentanza diretta e revocabile; sburocratizzazione e taglio dei salari della co-dirigenza; riorganizzazione democratica del governo e dell'amministrazione municipali), come primo passo di uno smantellamento generale e progressivo dello Stato che proceda dal basso verso l'alto.
In secondo luogo, le entrate delle imposte dovranno essere massicciamente reindirizzate alle strutture comunali (come avviene in Svizzera, dove il 60% di tutte le tasse sono versate ai comuni). Una volta raggiunto questo obiettivo, sarà risvegliato l'interesse delle persone all'autogestione delle tasse, coniugando il processo di formazione democratica con l'interesse personale.
In terza battuta, dobbiamo puntare in direzione di una drastica riduzione dell'orario di lavoro e di un contemporaneo incremento e omogeneizzazione del reddito, per mettere a disposizione il tempo libero che ci vuole e le risorse necessarie per la costruzione dell'autogoverno democratico. I protagonisti dell'autogoverno democratico non dovranno solo spingere avanti i processi di socializzazione, ma anche licenziare la «classe politica» nel processo di abolizione dal basso delle strutture di potere (smantellamento dello stato).
Partendo da queste tre premesse di base dovrebbe essere possibile realizzare delle prime iniziative di autonomia regionale o locale, da associare ai rispettivi segmenti della forza-lavoro, e lanciare un primo progetto di inchiesta sulle specificità locali e regionali della composizione di classe.
Fatto questo, quanto oggi sembra impossibile diverrà un bisogno di massa. I/le protagonist* delle democrazie di base locali inizieranno a riappropriarsi dei mezzi di produzione necessari per la vita della regione e li adatteranno ai loro bisogni: fogne e acquedotti nelle città-slum, socializzazione comunale della terra in favore dei piccoli contadini e dei senza terra, ma anche socializzazione delle case e delle imprese locali. Simultaneamente verrà avviata la socializzazione locale e regionale dei beni pubblici (fondi sociali, trasporti, istruzione, salute, casse di risparmio, ecc.). A partire da queste basi elementari di autogoverno sociale costruito sull'interdipendenza dei livelli comunali e regionali, sorgeranno, infine, strutture dell'autonomia, che non solo faranno a meno di élite dirigenti, ma che impediranno anche il ristabilirsi di nuove caste di esperti e burocrati. I processi comunali di socializzazione dovranno nel contempo collegarsi gli uni agli altri a livello regionale, sub continentale e continentale.
Senza la costruzione di scambi internazionali i processi di trasformazione comunali e regionale non saranno in grado di durare. Potranno verosimilmente formarsi a partire dai sindacati transazionali di cui si è parlato poco sopra, nella misura in cui quest'ultimi verranno incorporando nella loro auto-organizzazione segmenti strategici dell'economia globale. Sin dall'inizio essi avranno la responsabilità di connettere globalmente le democrazie radicali che vengono unendosi a livello locale e regionale e di usare lo sciopero generale per proteggerli dagli attacchi controrivoluzionari.
I sindacati transnazionali, nel passaggio alle federazioni di autogoverno, dovrebbero concentrarsi su quei comparti di economia che operano a livello globale, che eccedono la misura dei sistemi di produzione e di riproduzione regionali, che riforniscono le democrazie regionali dei consigli e che stabiliscono il contropotere di chi lavora nelle industrie chiave del sistema-mondo, soprattutto nella rete di trasporto globale, ma anche nei media, nella tecnologia dell'informazione, ecc.
Come modello esemplare, facendo seguito alla ricostruzione e alla socializzazione dell'industria automobilistica, potrebbe servire la rete di trasporto globale, poiché serba esperienze particolarmente ricche di organizzazione e di lotta (ITF - International Transport Workers' Federation, scioperi dei camionisti, dei piloti e delle industrie autostradali). L'ITF dovrebbe essere solo democratizzato ed esteso a tutti i segmenti dei trasporti.
Una volta stabilizzate le prime democrazie dei consigli e le federazioni dei lavoratori, queste potrebbero dare l'avvio alla fondazione di una federazione mondiale dell'autonomia sociale, che potrebbe fungere da punto di scambio tra democrazia dei consigli e federazioni internazionali delle operaie e degli operai. In questa federazione mondiale le delegazioni demo-consiliari e le delegazioni federative dei continenti e dei subcontinenti saranno rappresentate con gli stessi diritti. Essa dovrebbe stabilire una serie di fondi di ricostruzione e di trasformazione per abolire lo squilibrio geografico nella distribuzione delle risorse primarie: alimenti ed energia, reddito, istruzione e salute. Altri fondi dovrebbero invece dedicarsi al disarmo globale (fondi per la riconversione dell'industria bellica), alla riqualificazione degli ecosistemi e all'armonizzazione dei processi materiali di produzione intesi come attività vitali dell'umanità con la natura. Oltre a ciò, un fondo ad hoc dovrebbe lavorare al superamento delle strutture di dominio che potrebbero determinarsi anche al di fuori del sistema capitalista (potere patriarcale, conflitti etnici, razzismo).
Dopo molti tentennamenti, mi sono finalmente deciso a suggerire una anticipazione organizzativa di questo concetto attraverso la rete associativa globale che agirebbe contemporaneamente su tutti e tre i livelli. Non dovrebbe trattarsi di una organizzazione di quadri che abbia la pretesa di essere un'avanguardia, ma di una libera e democratica associazione di uomini e di donne che abbia criticato, rivisto, corretto, ampliato e dunque fatto proprio questo concetto, per testarne l'utilità nel dialogo col multiverso proletario. L'esperienza e le conoscenze acquisite condurrebbero ad una continua correzione del modello. Non appena il multiverso proletario avrà reso irreversibile il passaggio all'autonomia globale, l'associazione sarà di nuovo sciolta.
In questo senso, i primi tre passaggi simultanei per costituire una federazione di questo tipo saranno così determinati: si dovranno fondare, come prima cosa, gruppi di attivisti locali o regionali in tutti i continenti ed installare un network comune di comunicazione e pubblicità (internet, media regionali). L'associazione dovrebbe poi prendere parte alla fondazione della federazione operaia transnazionale dei più importanti settori chiave della produzione. Terzo, dovrebbe dare l'avvio a un'analisi globale della crisi, nella quale prestare particolare attenzione ai suoi effetti sociali (rapporti sociali globali). Parallelamente, si dovrebbero elaborare e continuare a sviluppare la cornice teorica e le opzioni d'azione che ne derivano.
Queste proposte possono sembrare eccessive e utopiche. Ma io considero le utopie concrete una risposta appropriata a una situazione storica di radicale sovvertimento. Tale risposta ci libera infatti dalla «tradizione delle passate generazioni», che «pesa come un incubo sulle menti dei viventi» (Marx) e ostacola la nostra capacità di cogliere le possibilità d'agire che emergono repentinamente. Ma a chi spetta il metterle in pratica? Come azzardarsi a suggerire una nuova dialettica tra l'anticipazione concettuale-organizzativa di una nuova composizione «politica» di classe e quella sociale e culturale del multiverso dei nullatenenti? Chi ce ne dà il diritto, dopo decenni di sconfitte e errori strategici che ci hanno reso inattendibili nel corso del vecchio ciclo?
Tuttavia, si deve considerare che ci stiamo addentrando in una situazione storico-mondiale in cui sono pensabili nuove opportunità strategiche: le carte in tavola non sono più le stesse. Allo stesso modo in cui, oggi, i nostri figli e nipoti ci chiedono cosa abbiamo fatto tra il 1967 e il 1973, le generazioni future chiederanno ai più giovani tra noi dove eravamo e cosa abbiamo fatto negli anni di crisi e depressione tra il 2008 e il 2012. Niente è impossibile. Chi può sapere se la prossima primavera i contadini cinesi si sbarazzeranno o meno del dispotismo di stato che, sin dai primi anni '90, li ha tenuti incatenati all'asse centrale dell'ingranaggio economico mondiale, alle relazioni tra debito e credito che lo caratterizzano? In questo caso, il dollaro toccherebbe immediatamente il fondo, e dovremmo confrontarci con due fatti: in primo luogo, con l'improvviso approfondirsi della crisi economica mondiale oltre i livelli raggiunti da quella del XX secolo; in secondo luogo, con l'emergere di un nuovo protagonista sulla scena della storia mondiale, rimasto in disparte durante la prima fase della crisi: la classe operaia mondiale. Potrebbe anche accadere che le rivolte di massa che si profilano in Cina e altrove falliscano e siano soffocate dalla controrivoluzione, in una forma ancor più violenta di quella che caratterizzò la Turchia nel 1979-71, il Cile nel 1973, l'Argentina nel 1976 e l'Italia nel 1979. Questo aprirebbe la strada a uno scenario in cui l'acuirsi delle guerre economiche mondiali tra potenze multipolari non potrebbe più essere cementato in modo «ultraimperialistico», e ciò non potrebbe non scatenare una nuova era di nuove grandi guerre globali. Forse non avremo una simile escalation, forse l'asse Washington-Pechino riuscirà a gestire la crisi e a introdurre una nuova fase di compromessi di classe per mezzo dell'intervento dello stato. Ma in questo caso sorgerebbero nuove possibilità d'azione, perché ciò significherebbe l'inizio di un nuovo ciclo dell'antagonismo tra capitale e lavoro. Anche nel caso dell'imporsi di questa variante «mite» degli esiti della crisi dovremmo predisporre risposte convincenti, inscindibili dal progetto di equità e progresso sociali.
Traduzione dall'inglese di Jason Francis Mc Gimsey e Marco Gabbas, revisione sull'originale tedesco di Sandro Chignola e Adelino Zanini.
[1] Come ricordato nell'introduzione al volume, il testo è apparso originariamente in versione tedesca e inglese nel sito della rivista tedesca Wildcat (http://www.wildcat-www.de/). Viene qui presentato in traduzione italiana d'accordo con l'autore.
[2]Si tratta di un'unica istituzione che comprende gli affari bancari sia d'investimento che al dettaglio (n.d.t.).